Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  marzo 24 Sabato calendario

Scrivere di Harvey Weinstein significa, prima di ogni altra cosa, affrontare una storia di passate sfrontatezze

Scrivere di Harvey Weinstein significa, prima di ogni altra cosa, affrontare una storia di passate sfrontatezze. Lo si descrive invariabilmente come un villano, tendente agli scatti d’ira, tremendo, mascalzone. Di solito, anche screanzato e collerico. All’ultima cerimonia dei Golden Globe, Madonna l’ha chiamato "The Punisher" (il punitore), Meryl Streep s’è riferita a lui dandogli del "Dio", e gli attori francesi del suo film The Artist, acclamato dalla critica e vincitore di 5 oscar 2012 su 10 nomination, si riferiscono a lui come a "Le boss". Tutto questo lo fa ridere. Madonna è arrabbiata con lui perché l’ha costretta a fare pubblicità. Meryl Streep (Oscar anche lei per The Iron Lady) stava scherzando. E per ciò che riguarda gli attori di The Artist, dopo la serata dei premi sono andati fuori città e non si sono proprio fatti vedere all’intervista del Today Show. «Sono francesi, o vattelapesca!». C’è andato stato lui, all’intervista tv, al posto loro, in compagnia di Uggie, il cane che nel film ruba la scena a tutti. «C’è mancato poco che quel cane la facesse sul divano, davanti alle telecamere accese del Today Show... Ho pensato: già, proprio un Dio, proprio Punisher, proprio Le Boss!». È mattina, siamo al Tribeca Grill a New York, dove il personale e chi entra nel ristorante guarda Weinstein con compostezza e deferenza. Se usassimo termini politici, diremmo che lo trattano con gran rispetto, più come un governatore di un grande stato che come un senatore degli Usa. Il personale, fa sicurezza e tutti i presenti si muovono facendo meno rumore possibile. «Il governatore vorrebbe dell’acqua, non gassata». «Harvey vorrebbe un tavolo sul retro». TRECENTOTRE NOMINATION ALL’OSCAR L’impressione che mi fa di primo acchito? Lo trovo cordiale, schietto, prudentemente simpatico. Un po’ sulla difensiva. Sul chi va là, se mai ci scappasse un insulto. Anche calmo e riflessivo. Si è addolcito, dice. È riconoscente. Di recente sul Wall Street Journal ho elogiato il suo lavoro. Ormai, nella nostra cultura siamo arrivati a dover sostenere i film rivolti agli adulti, a cercare d’incoraggiarli, promuovere i loro creatori. Oggi a David Lean non sarebbe permesso fare film: un inglese nel deserto (Lawrence d’Arabia, ndr)? Chi vuoi vedere un film sulla sabbia? Quanto a John Ford, dovrebbe trasformare John Wayne in un uomo di mondo sulla trentina, tipo il protagonista di A casa con i suoi, la cui massima performance è riuscire a non centrare il gabinetto quando vomita. Il nostro livello di cinema è precipitato nell’immaturità, nella violenza, in una sessualità pervasiva e appiattita. Bisogna riportare l’attenzione su chi, in controtendenza, fa il possibile per produrre qualcosa di buono. Come Weinstein, a dispetto del suo modo di fare tronfio e sopra le righe. Negli ultimi 25 anni i progetti nei quali ha lavorato a vario titolo hanno avuto 303 nomination agli Oscar. E tre film che ha prodotto – // paziente inglese, Shakespeare in love e Chicago – sono dei classici. È responsabile, almeno in parte, di alcuni dei più grandi lavori della nostra epoca. Nell’ultimo anno e mezzo in almeno due occasioni ho visto il pubblico reagire manifestando autentica gratitudine. La prima volta è successo al termine di una proiezione pomeridiana di II discorso del re a Manhattan, quando il pubblico di tutto il cinema è esploso in uno scrosciante applauso. La seconda, in una sera d’inizio gennaio, quando all’ultima riga a sorpresa di The Artist pubblico ha singhiozzato con sollievo, poi ha riso, infine ha iniziato ad applaudire. In entrambi i casi è stato come se tutte quelle persone stessero dicendo «grazie per un film che finalmente si può guardare e nel quale non c’è nulla di mortificante, nulla che esplode, semplicemente una storia di esseri umani che lascia intendere che la vita può anche non essere priva di significato». Facendo un po’ di storia del personaggio e dei suoi "colpi", questo, schematicamente, è Harvey Weinstein. In tre atti. Atto primo: il ragazzo del Queens scopre nuovi talenti. Nasce nel 1952 a Flushing, nel Queens, figlio di Miriam e di Max, tagliatore di diamanti. Ha un fratello più giovane, Bob. S’innamora del cinema, frequenta il college a Buffalo, con Bob rileva un cinema locale. Organizza concerti rock e proietta film complicati. Fonda la Miramax. Ha investitori esterni e produce opere "indipendenti". Poi arriva Sesso, bugie e videotape. Quel primo successo è seguito da risultati ricorrenti. Imbrocca un’infilata di film straordinari: Il mio piede sinistro, La moglie del soldato, Lezioni di piano, Il postino, Le ali dell’amore, La vita è bella di Benigni, Nuovo cinema Paradiso, Il paziente inglese (Oscar al miglior film, 1996), Shakespeare in love (Oscar al miglior film, 1998; oscar all’attrice protagonista Gwyneth Paltrow). Nel 1993 la Miramax è rilevata dalla Disney. Soldi, fama, potere. È il momento della politica, nel partito democratico, grande finanziatore e amico dei Clinton; nei weekend a Camp David non apprezza le portate servite ai pasti. Comportamento prepotente, temperamento irascibile. Ed è pieno di sé. Atto secondo; litiga con la Disney e perde tutto. Dissidi con la Disney, fine del rapporto, sangue amaro, mancanza di progettualità. Riviste di gossip, incursioni nella moda, internet, pubblicità. Tutto ciò che tocca si trasforma in oro? No, non è cosi. Manca di conoscenze del settore in cui lavora. «Non avevo altro da offrire, a eccezione dei soldi, e certo non avevo esperienza. Ho fallito su tutti i fronti». È spazzato via. I suoi nemici sono al settimo cielo. Atto terzo: «Ho ritrovato il mio sangue freddo». Si riprende, recupera le energie, toma a concentrarsi sui film. Primi fallimenti nella caccia agli investitori: A prova di morte, Bobby. Tiene duro. Ma nel 2008 arriva The Reader - A voce alta, film controverso che fatica a trovare il suo pubblico, ma alla fine ottiene il consenso dei critici e si aggiudica un Oscar (migliore attrice protagonista, la straordinaria Kate Winslet). «Ho ritrovato il mio sangue freddo». Nel 2009 c’è Bastardi senza gloria, l’anno dopo // discorso del re. Il 2011 porta The Iron Lady, La mia settimana con Marilyn e The Artist. È il suo ritorno, le interviste lo fanno felice. Si sente «favorito dalla sorte» nel fare quello che fa. «La prima volta non l’avevo apprezzato. Accidenti se l’apprezzo, adesso!». THE ARTIST SEMBRA LA SUA CARRIERA A questo punto il mio direttore terne che mi stia lasciando influenzare. Si chiede se non dovrei citare qualche testimonianza di una vecchia socia di Weinstein che non si beve la storia della sua rinascita definitiva. «Mi sembra più simile a un’araba fenice» dice lei. «Continua a rinascere dalle sue ceneri per prendere fuoco daccapo. La verità è che in questo periodo Harvey è tutto miele, e butta giù i rospi per vincere qualche Oscar». Alcune star le tratta bene, altre male. «Ha una squadra di collaboratori enorme, che rende possibile tutto ciò. Fino al giorno degli Oscar s’è trasformata in una truppa assetata di sangue. Ma ora Weinstein ricadrà, di nuovo nelle sue cattive abitudini». Forse andrà proprio così. Ma torniamo all’intervista. La prima domanda ha a che vedere con una teoria: The Artist è la metafora della carriera dello stesso Weinstein? Per questo si è sentito tanto attratto dalla storia? Proprio come George, l’attore star del film, Weinstein è un uomo di gran successo che a un certo punto ha preso alcune decisioni sbagliate. Non previene gli errori, i suoi demoni si scatenano, patisce una dolorosa caduta. Impara la lezione che deve imparare. Il suo ritorno è umile, felice, produttivo. Ad Harvey l’idea piace molto. Non ci aveva pensato ma immagina che «si potrebbe dire che nel mio caso è vero, questa è una descrizione molto accurata». Malauguratamente, io avevo un’altra teoria in mente. The Artist non solo è la metafora della sua carriera – gli dico – ma racchiude due iconiche raffigurazioni della sua personalità. La prima è quella di un uomo che ama l’arte ed è frainteso. La seconda è il produttore scurrile, grande e grosso, che biascica rumorosamente il sigaro, interpretato da John Goodman. Quando deve dare ordini, abbaia e offende tutti, È plausibile che questi siano due aspetti di Harvey Weinstein, l’artista che ci ha regalato Shakespeare in love e quell’essere triviale che ha prodotto Zack & Miri amore al primo sesso? La domanda non gli piace affatto, ed è comprensibile dato che non era particolarmente cortese. Pare ferito, poi si riprende: traspira risentimento. Ma dice: «Il mio non è risentimento, solo che qualsiasi cosa uno dica, loro la decontestualizzano». Resto calma, ma su questo punto non mollo per il resto dell’intervista. «NELLA MIA CASA CI SONO SOLO LIBRI» «L’interpretazione di John Goodman mi è piaciuta tantissimo, ma non mi sono mai rapportato a quel personaggio perché non si tratta di me. Quello che lui interpreta è uno stereotipo di ciò che si suppone faccia un produttore, credo... In ogni caso è lontanissimo dalla realtà». Per cui è «profondamente a disagio» con quello stereotipo. Harvey ama leggere, sin dall’infanzia: «Leggo gli autori americani da quando avevo dieci o undici anni. A undici anche i classici russi». Adora la storia. Legge quattro, cinque quotidiani al giorno e varie riviste. Qualsiasi grande magnate, «biascicatore rumoroso di sigari», è libero di andare a trovarlo a casa sua, dove tutto ciò che troverà in giro sono libri, «Pertanto quell’immagine, come potrà capire, mi irrita, perché è... la mia antitesi. Ma la gente vuole che interpreti quel ruolo a suo beneficio». Beh, ribatto, alla gente gli stereotipi piacciono perché: A) l’aiutano ad andare dritta al punto; B) ci si diverte, sia con gli stereotipi sia con gli archetipi e le immagini iconiche. Alla gente piace che lei sia una sorta di Harry Cohn, leggendario produttore-mascalzone hollywoodiano (della Columbia, ndr). «Sì, vogliono che sia Harry Cohn. Ma se dovessi scegliere io qualcuno da prendere a modello, sarebbe Irving Thalberg o David Selznick. Questo è il mio obiettivo». Perché Thalberg? «Aveva il tocco magico: riusciva a lavorare con qualsiasi regista e tirar fuori il meglio. Inoltre capiva cosi bene il cinema che ogni suo suggerimento era preso sul serio. Sceglieva quello che doveva, vigilava su tutto e aveva l’autorità di chiedere che fossero ripetute le scene». È gusto, gli dico. Thalberg aveva un gusto impeccabile. E la gente talvolta ha detto questo anche di lei e del suo lavoro. Sì, risponde. «Credo che derivi dal fatto che leggo molto». UN FILM MUTO? SEGNO DI ARROGANZA... Altra domanda di quel flagello del mio direttore: a Hollywood gira voce che Weinstein si sia dato delle arie dietro le quinte per aver ricevuto il premio Irving G.Thalberg. «Sta usando il suo potere per avere un premio alla cortesia! Non dovremmo parlarne?». No, lasciamo perdere, dico. Promette gentilmente che non s’occuperà dell’editing finale del mio articolo. Quando ha letto la sceneggiatura di The Artist, Weinstein ha pensato «che fosse meravigliosa». Ha assistito al premontaggio in una sala proiezioni di Parigi e «in quel preciso istante, quasi fosse un’epifania, ho visto il film come sarebbe venuto, come l’avrebbe visto il pubblico». Un’ora dopo aveva in mente la campagna pubblicitaria. Suo fratello Bob e quelli della Weinstein Company avevano parecchi dubbi. Produrremo e venderemo un film muto in bianco e nero? La gente gli diceva: «Ovviamente ti senti ancora euforico dopo Il discorso del re. Pensava che la sua fosse "arroganza". Qual è il messaggio al cuore del film? Non: l’amore redime ogni cosa. Tutt’altro, dice lui, «il mio è un film sulla tecnologia. Siamo circondati da questi gadget straordinari. Twittiamo, mandiamo sms, reagiamo, spiattelliamo tutto ciò che pensiamo a destra e a manca, ma questo intralcia i nostri rapporti umani, proprio come l’avvento del sonoro ostacola l’arte dì George nel film. Con la tecnologia, la gente non riesce davvero a conversare». Ma non si deve cedere per forza, resistere è possibile. «E non è detto che solo perché la tecnologia cambia le si debba permettere di cambiarti». All’appuntamento settimanale a cena con le figlie a Manhattan, a un certo punto Harvey dice: «Ok, tirateli fuori» e loro estraggono da borse e borsette i loro BlackBerry e gli Smartphone. «Ho detto loro che era un po’ come nei vecchi western quando c’era chi diceva: "Tirate fuori le pistole e mettetele sul tavolo". Loro, infatti, mi fanno: "Assolutamente no papa, prima tu"». Allora mette subito in chiaro: «A tavola non voglio telefoni, mail, telefonate a Emily, niente girlfriend e boyfriend. Niente di niente. Ora siete con vostro padre e sapete che per un’ora le cose andranno così. Magari vi annoierete, ma è così e basta». La prima volta che ha detto loro queste cose «la più piccola dopo 10 minuti mi disse che doveva andare in bagno. Naturalmente le risposi di andare. Lei si alzò e afferrò il telefono. Sono esploso: "Lascialo dov’è!". Cercava di portarselo via di nascosto». Non possiamo odiare la tecnologia: c’è, ma non deve guastare i rapporti. «IL MIO CINEMA È ARTISTICO E POPULISTA» Qual è il suo massimo obiettivo professionale? Non vuole sembrare pretenzioso, snob, ed è sulla difensiva all’idea che il suo pubblico possa sembrare altrettanto altezzoso, selettivo. «Voglio creare un cinema artistico ma populista». Questo implica un’importanza accentuata della sceneggiatura. «Una volta ho sentito Spielberg dire che gli effetti speciali sono come parole magiche». Weinstein farà un film su Max Perkins, il leggendario editar di Scribmer’s che scoprì Francis Scott Fìtzgeraid, Ernest Hemingway e Thomas Wolfe. Colin Firth sarà il protagonista e Michael Fassbender interpreterà Thomas Wolfe. «Farò quel film. Ma non ne faccio su JamesBond». Si è anche procurato un documentario intitolato Bully, sul bullismo, parla di bambini tartassati a scuola e su internet. «In un certo senso sto per far ammenda di quello che ho commesso in tanti anni di caratteraccio». Un altro progetto? «Mi piacerebbe continuare a innovare, aiutare il gusto americano a evolversi, farlo crescere, espanderlo, renderlo più recettivo e meno di corte vedute». È un modo come un altro per dire: «Voglio raccontare belle storie»? «È solo un modo per dire basta con questi film da Superman!» risponde esplodendo in una risata. «Basta!». Va bene, ultima domanda. È banale, ma c’è qualcosa che la gente ignora e crede invece che dovrebbe sapere di lui? «Penso che la gente debba sapere che non fumo sigari». (Traduzione di Anna Bissanti, 2012 Newsweek/Daily Beast Company LLC. Ali rights reserved.)