Malcom Pagani, il Fatto Quotidiano 28/3/2012, 28 marzo 2012
I FILM ITALIANI DI OGGI? MEGLIO IL MIO QUADERNO
Non ci crede neanche lei, vero?”. Le tre ore con Enrico Lucherini sono scadute. Un’orgia di memorie, diari giovanili, volti e rimpianti ben mascherati che sulla porta di casa gli consigliano il dubbio estremo. Duemila eventi, mille film. Woody Allen e Fellini. Celentano, Flaiano, Moretti, Monicelli, Pasolini, Visconti. E poi Cardinale, Clooney e Crowe. De Niro, Loren e Troisi. L’alfabeto dei suoi attori. Il cinema dell’ultimo mezzo secolo. Lui era (ma l’imperfetto confonde) l’uomo della promozione. Il coltivatore diretto della storia. Poteva sceneggiare ulteriormente se il caso richiedeva. E il caso, richiedeva sempre. La “lucherinata” (trovata pubblicitaria per far circolare paradossi e notizie su attori in cui il vero si sposi al verosimile) mieté vittime e non fece prigionieri. Il confine tra verità e bugia, un terreno noto: “Lo invento sempre io”. Ora a 80 anni, questo elegante signore circondato da un nitore infantile che nasconde la fiera, dovrebbe ritirarsi. Bruciando sigarette, notti insonni e albe barattate per inseguire un’idea. Sembra improbabile. Nell’attesa, mentre ad alta voce esorcizza il momento: “Sono stufo, chiudo” si prepara sul suo lavoro una mostra all’Ara Pacis realizzata da Roma Capitale: “L’anno scorso omaggiarono Audrey Hepburn. La supererò di un biglietto. Se lo segni”.
Insomma Lucherini si ritira.
Non significa che andrò a dormire subito dopo cena.
È insonne?
A letto mai prima delle tre. Fa male. ‘Se ti vede l’alzheimer, fugge’. Me lo ha detto Tornatore, le piace?.
Lucherini il vitalista.
Mi sono divertito. Ho esagerato e fatto cose di cui mi pento relativamente, sempre nell’esclusivo interesse del film.
Il cinema, la sua vita.
Iniziai frequentando clandestinamente l’Accademia d’Arte drammatica. Mio padre era medico e considerava la successione dei mestieri in famiglia più normale del freddo d’inverno.
Non la assecondò?
Mi cacciò di casa. Era un’epoca avventurosa. Divenni amico di Rossella Falk, Patroni Griffi e Romolo Valli. Mangiavo gratis nei loro piatti. Una forchettata, una battuta. Come attore ero un cane.
Un cane?
Un cane terrorizzato. Che mi trovassi a Lucca o all’Olympia di Parigi. Ne La Bugiarda di Fabbri facevo un servo talmente imbarazzante da costringere il regista a farmi prendere degli oggetti per dare movimento alla scena.
Funzionò?
Per farmi uno scherzo, a Civitavecchia, incollarono ogni libro, o portacenere dovessi sollevare. Con la compagnia dei giovani andammo in Sudamerica.
Viaggio avventuroso?
In nave, da Napoli. Inconsapevolmente, cominciai a ragionare da press-agent, un’attività che non esisteva. Organizzavo conferenze stampa all’ambasciata brasiliana in uno spaventoso portoghese. A fine tournée, mio padre me lo disse chiaramente.
Cosa le disse?
‘Ti diseredo’. Ma io avevo già capito. Cambiai vasca, rimanendo nella stessa piscina.
La Dolce Vita?
Eravamo tutti lì. Costretti in un quadrilatero immaginario tra Rosati, Doney e via Veneto. Quelli che odiavano Fellini, quelli che detestavano Visconti e tutti gli altri che non potevano sopportare Antonioni. (Ride)
Ricordi?
Flaiano mi chiedeva degli afrori delle attrici, Ava Gardner e Walter Chiari nonostante sapessero della presenza dei fotografi cadevano sempre nella rete dei flash. Mai capito perché.
Partecipò alla sceneggiatura?
A modo mio. Regalavo lampi a Fellini senza consapevolezza del mio ruolo. Con Marcello Mastroianni e Flora, la moglie, andavamo a trovare la puttana che ispirò una delle storie del film. Le ragazze di vita volevano parlare e Marcello calarsi nella parte. L’ipotesi di scopare non era contemplata, ma in quelle notti scoprimmo un mondo.
A cui Fellini diede corpo.
In via Veneto venne un paio di volte in tutto. Per il resto esaminava foto da casa e rielaborava.
Nel ’58 quando Aiché Nanà si spogliò Fellini non c’era.
Ma la vide sull’Espresso. La polizia fece irruzione e Tazio Secchiaroli che aveva scattato come un pazzo, mi infilò i rullini in tasca propinando agli agenti pellicole vuote.
La dolce vita oggi?
Non scherziamo. Quando mi propongono di riportare in vita via Veneto libero i dobermann.
Anita Ekberg?
Non la vedo dai tempi di Boccaccio ’70. Tre anni fa squilla il telefonino. Vengo investito dagli insulti: ‘Lucherini, tu miliardario con mie foto, tu con libri e telegiornali arricchito su mie spalle’.
E lei?
Calmissimo, la domai. Per La Dolce Vita mi pagarono 300.000 lire. La ricchezza è altrove.
È vero che a teatro studiava con malizia l’assegnazione dei posti?
Certo, vede lì? (mostra un borderò di metà anni 60, la pianta del teatro Quirino a Roma. Punti rossi legati a nomi celebri, ndr). Fila f 7. Davanti Vittorio Gassman. Dietro di lui misi la sua ex amante, Anna Ma-ria Ferrero con Jean Sorel. Il casino ci rallegra l’esistenza.
Lei era amico di Visconti?
Molto. Iniziammo insieme con Il Gattopardo.
Era insopportabile il Maestro?
Non con me. A una festa cacciò di casa una nostra amica sorpresa a lamentarsi dello champagne: ‘È caldo, fa schifo’.
Reagì male Visconti?
Con freddo raziocinio: ‘Vada a casa sua. Lo troverà alla giusta temperatura’. Luchino adorava gli imbucati perché poteva metterli alla porta.
Visconti amava il lusso.
Ma era davvero di sinistra. Il partito non gli lasciava nessuna libertà. Trombadori e De Santis lo braccavano: ‘Mi raccomando, qui metti la bandiera’.
Lei lanciò Il sorpasso.
Fu difficile perché complicata era l’idea che nella commedia albergasse la morte. La sera della prima, in Piazza in Lucina, non c’era nessuno. Risi era solipsista, ironico, perfido. E ottimista. Ebbe ragione lui.
Lei fece litigare Florinda Bolkan e Liz Taylor.
Liz fu ricoverata per una sciocchezza. Giocai sull’equivoco e tirai fuori delle vecchie foto di Florinda, allora sconosciuta, per creare il caso. Doveva lavorare con Pasolini e confrontarsi con dei giganti. Non avevo scelta.
Lei è spietato.
Pragmatico. Con Pier Paolo avevo un ottimo rapporto.
Ma se fu lei a inventare la freddura “Mamma coma”.
Non se la prese. Per rigore Pasolini somigliava a Moretti con cui feci La messa è finita. Erano curiosi di me. Nanni mi piace. Con impegno, nel suo delirio, potrei fargli dire qualunque cosa.
Peggio i cattivi o gli stupidi?
Gli stupidi, senza dubbio. Creano danni irreparabili. Vorrei dire un’altra cosa su Visconti.
Prego.
Nel ’73 produssi Sepolta viva una geniale porcheria con Agostina Belli. Contemporaneamente curai il lancio di Ludwig.
Come andò la sfida?
Sepolta viva fece più soldi pur non essendo costato una lira. Per colorare le posate usavamo la porporina. Sembravano d’oro, ma gli attori non potevano neanche metterle in bocca.
Perché smise di produrre?
Persi denaro con un progetto su Alan Sorrenti affidato a Carlo Vanzina. Un film delicato, del tutto incompreso. Mi preoccupai e provai a importare la febbre del sabato sera a Roma.
Dice sul serio?
Il locale si chiamava Much More. Mi ero fatto costruire un ufficio uguale a quello di Glenn Ford in Gilda. Un giorno dalla feritoia che dominava la discoteca mostrai il culo di Serena Grandi. Ovazioni. Delirio popolare.
Poi?
L’eroina travolse l’universo giovanile e cancellò tutto. Davanti al locale scaricavano l’ora d’aria di Regina Coeli e tornai in ufficio da Spinola, il mio socio.
Perché molla Lucherini?
Perché è finito tutto e intravedo aberrazioni. C’è chi accetta di fare l’ufficio stampa individuale. Ma si rende conto? C’è presunzione. Registi che si sentono Kubrick e attori che alla seconda posa credono di somigliare a Gassman. Meglio dire basta.
Il cinema italiano di oggi?
Per convincermi a vedere La Bàs, Cesare deve Morire devono mettermi in catene. Preferisco il mio quaderno.
Quale quaderno?
Guardi. Ci sono i miei disegni di 16enne. Le mie aspirazioni, i miei sogni. Qui scrivevo le recensioni dei film e tormentavo le cassiere allora obbligate dalla legge a trasmettere 25 giorni l’anno un film italiano.
Una malattia.
Certe deviazioni partono da lontano.