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 2012  marzo 28 Mercoledì calendario

LE MILLE LUCI ROSSE



L’edizione 2012 del FilmForum Festival (fra Udine e Gorizia, fino a domani) ospita un’interessante sezione dedicata ai cosiddetti Porn Studies e alla pervasività del cinema a luci rosse sulla scena produttiva internazionale. Un approccio accademico (gli interventi dei docenti, provenienti da Arizona, Stoccolma, Malmö, San Paolo, Rio de Janeiro e Birmingham, sono tutti rigorosamente in inglese), che ha l’obiettivo di tracciare una sorta di «cartografia degli audiovisivi pornografici», mettendo a fuoco, in base a elementi caratterizzanti di “tipicità”, le diverse identità nazionali che l’hard ha assunto nel mondo, nel corso della sua evoluzione storica e della sua espansione geografica. Si è discusso così, giusto per fare un esempio, della rappresentazione delle differenze razziali nella pornografia statunitense, con particolare attenzione alla figura dell’african-american e alla rappresentazione del corpo nero nudo, mentre domani pomeriggio alle 15 al Palazzo del Cinema di Gorizia saranno in primo piano le contaminazioni splatter tipicamente british. Ospite d’onore del Festival un’icona della produzione queer internazionale, il regista e fotografo canadese Bruce LaBruce (suo il controverso The Raspberry Reich del 2004, particolare cocktail di hardcore e radicalismo di sinistra), protagonista ieri mattina di un incontro aperto al pubblico e della presentazione della biografia Bruce(x)ploitation (Queer Frame, pp. 152, euro 39,90) dedicatagli da Cosimo Santoro e Giuseppe Savoca. Dell’intera sezione porno parliamo con uno dei curatori (gli altri sono Giovanna Maina ed Enrico Biasin), Federico Zecca, ricercatore in Filmologia e Storia del cinema presso l’Università degli studi di Udine e Gorizia - Dams.

Digitando la parola «pornography» su Amazon.com vengono fuori centinaia di titoli. Come si spiega l’attuale boom dell’editoria sulla pornografia?

«La vera deflagrazione del porno c’è stata dopo la svolta digitale, tanto che il 70-80% dei contenuti su Internet sono riconducibili a tematiche hard. Ma per un po’ è stato un mondo assolutamente sconosciuto da un punto di vista scientifico. Ora le cose sono cambiate e anche gli studiosi si sono dati da fare per interpretare le varie pornografie alternative, non industriali, pro-am ecc. nate dal web. Non siamo più dinanzi a un monolite e servono analisi ad ampio spettro. I Porn Studies, in fondo, sono l’evoluzione di discipline culturali assai in voga nei Paesi anglosassoni, come Gender Studies, Lgtb Studies, Queer Studies...».

Molta di questa letteratura è scritta da neofemministe antiporno. Mi viene in mente la filosofa Michela Marzano, autrice del volume La pornographie, o l’épuisement du désir e di un pamphlet come Malaise dans la sexualité. Le piège de la pornographie. Che ne pensa?

«Che parecchi autori di libri di questo genere, come anche, dal versante liberal, Simone Regazzoni con il suo fortunato Pornosofia, non si occupano della storia della pornografia, non la conoscono, pensano che sia tutta uguale, non danno conto delle sue tipologie morfoculturali, né delle sue varie modalità di fruizione e assunzione. Tanto che non citano mai il titolo di un film che sia uno. E la Marzano in bibliografia nemmeno mette i fondamentali testi di Linda Williams... I veri e propri Porn Studies accademici, invece, che esistono da circa dieci anni, vanno oltre questa letteratura pro o contro, analizzano modelli profondi e sono un ircocervo sul piano disciplinare».
Esiste comunque anche una pornografia female - se non proprio feminist - oriented...
«Certo. Basti pensare alla nostra ospite Ingrid Ryberg, una delle dodici autrici di Dirty Diaries, vero e proprio manifesto in dodici cortometraggi della pornografia femminista svedese (proiettato ieri qui a Gorizia per la prima volta in Italia), girato nel 2009 e finanziato direttamente con soldi pubblici dallo Swedish Film Institute. Si tratta di pellicole che contraddicono innanzitutto il principio aureo della “massima visibilità”, quindi il mainstream politico-estetico del genere, con grande attenzione alle immagini e alla trama, e infine il consueto rapporto sociale, con un incontro “vero” che solo alla fine scaturisce nel sesso. Insomma, tutto il contrario del consueto “prendi una donna, sbattila al muro...” ».

Gli incontri di questi giorni hanno indagato o indagheranno le differenze tra le produzioni nazionali di Stati Uniti, Svezia, Brasile e Gran Bretagna. Ce le può riassumere?
«I workshops fanno parte di un progetto triennale (l’an - no prossimo toccherà all’area del Mediterraneo) e i risultati sono ancora parziali. Comunque, semplificando al massimo, possiamo dire che in Brasile si ha un curioso mélange con la commedia. In Europa il precetto recita che «a letto non si ride»: e invece a Rio de Janeiro e dintorni accade spesso. Nel Regno Unito, invece, il connubio classico è con l’horror, il sangue. In Svezia va molto il filone politico, definiamolo controculturale, il sesso edulcorato e molto politically correct. Negli Usa, la madre patria del cinema a luci rosse, abbiamo due correnti principali: quella del lungometraggio soft e accurato stile anni Settanta, alla Gola profonda con Linda Lovelace per intenderci; e quella pseudo-documentaria, più hard, in cui ci si accoppia selvaggiamente in una stanza. E poi c’è anche un filone emergente».

Che sarebbe?
«L’eco-sex, la pornografia ecologista e neo-hippie, i cui protagonisti mangiano cibo sano, si vestono con fibre naturali, copulano all’aria aperta, nei boschi, nei prati, in spiaggia...».

E il panorama italiano com’è?
«Dopo la golden age degli anni Ottanta, ora è piatto. Più che altro copiamo dagli Stati Uniti, il gonzo per esempio. Anche se ci sono registi, come Mario Salieri con la costrizione femminile, che seguono una propria tematica fissa. Ma dell’Italia ci occuperemo a fondo nel 2013»