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 2012  marzo 29 Giovedì calendario

LA SOFFERTA E DOPPIA IDENTITA’ DI UN PARTITO

Ai tempi del Pci vigeva una prassi: ogni svolta politica a destra andava preceduta da una svolta sociale a sinistra. Così per anni si abbinò alla vociante opposizione in piazza una fruttuosa consociazione in Parlamento. Forse è stata solo quest’antica sapienza a far invocare a D’Alema una svolta a sinistra per il Pd; o a indurre l’Unità a credere al Wall Street Journal, e a confondere Mario Monti con la Thatcher.
Si capisce che poche ore prima di incontrare, per giunta nell’ufficio personale di Berlusconi, il nemico storico della Seconda Repubblica, e stringere con lui un patto per fondare insieme la Terza, il gruppo dirigente del Pd abbia voluto sventolare un po’ di bandiere rosse in nome dell’articolo 18, a difesa del quale si sono levate del resto perfino le bianche insegne del cardinal Bagnasco. Ma è sotto gli occhi di tutti che non solo di tattica si tratta: nel Pd è in corso una ricollocazione strategica. E la storia più recente delle sue relazioni pericolose con la Cgil e con il Pdl ne sono la prova.
Tra la sinistra politica e il grande sindacato rosso c’è sempre stata competizione. Per un lungo periodo la Cgil è stata più riformista e più moderata, da Di Vittorio a Lama fino a Trentin. Poi, con Cofferati, le parti si sono invertite e tali sono rimaste a tutt’oggi. La ragione sta nei differenti progetti politici. La Cgil è da sempre il laboratorio dell’unità delle sinistre (il che la rendeva paradossalmente più moderna e più plurale ai tempi del monolite comunista). Il Pd è invece nato per fare l’unità dei riformisti, con un inevitabile confine a sinistra. Dopo anni di duelli, si può dire che la partita si sia conclusa con la vittoria della Cgil. Sul fronte delle riforme sociali il Pd non ha né la cultura, né la forza, né il fegato per affermare e sostenere un punto di vista differente.
Questo spiega perché, dopo tanti anni, il gruppo dirigente di quella che si definisce una forza riformista non può intestarsi una riforma che sia una. Se si escludono le liberalizzazioni di Bersani nel secondo governo Prodi, su pensioni, mercato del lavoro, sanità, scuola, pubblico impiego, è una storia di conati, di tentativi appena abbozzati e subito respinti, di battaglie debolmente ingaggiate e malamente perse. I giovani turchi del Pd, che oggi si teorizzano «socialdemocratici» per spiegare questo arretramento, dovrebbero ricordare che le grandi socialdemocrazie europee non sono mai scese a patti con il radicalismo sociale. Il Labour si riprese dalla notte del thatcherismo solo dopo aver spezzato il guinzaglio al quale lo tenevano le Union; la socialdemocrazia tedesca non ha fatto un governo con la sinistra di Die Linke anche a costo di perdere il governo; e l’ultimo socialista francese a soggiornare all’Eliseo fu il Mitterrand che scaricò dal governo i comunisti.
Ma se il fronte sociale è perso, al Pd resta la politica. E qui interviene la seconda relazione pericolosa, quella con il Pdl. Proprio perché ha smarrito la sua egemonia nelle piazze, il Pd deve riconquistarla in Parlamento. Sa bene che il progetto frontista incarnato dal sindacato, che si spinge con la Fiom fino ai confini dei movimenti antagonisti, sarebbe la sua rovina. Rovina tattica, perché come si è visto a Napoli, a Milano, a Genova, a Bari, a Cagliari e perfino a Palermo, se regala il pallone delle primarie ai suoi competitori perde sempre. Ma anche rovina strategica, perché non c’è nessuno nel Pd che non rabbrividisca al pensiero di governare l’Italia con la foto di Vasto, dall’Afghanistan alla Tav. Ecco allora che il Pd ha bisogno del Pdl per liberarsi da quell’abbraccio con una nuova legge elettorale, nella speranza di andare al voto da solo, senza papi stranieri, senza rischiare primarie di coalizione, senza legarsi le mani sulle alleanze, magari assorbendo prima o poi la sinistra di Vendola ma scrollandosi di dosso le lobby dipietresche che lo assediano. Ciò che è andato perso sul piano del riformismo, sarebbe così recuperato sul piano politico.
L’idea è questa: Bersani, dicendosi socialdemocratico all’europea, vuole fare ciò che provò Veltroni dicendosi democratico alla Kennedy e che prima ancora tentò D’Alema dicendosi post-comunista clintoniano. Difficile dire se potrà funzionare nel gran caos italiano. Ciò che è certo è che la bestia dell’antipolitica, allevata e nutrita a sinistra in questi anni, non si placherà per così poco, e morderà Bersani come addentò Veltroni «inciucioni» e D’Alema «dalemoni».
Antonio Polito