Stefano Manzocchi, Il Sole 24 Ore 27/3/2012, 27 marzo 2012
IL FRENO DELLA RICERCA MANCATA
Perché stiamo cambiando, con grande stress e fatica sociale, i meccanismi della partecipazione degli italiani al lavoro? Le risposte sono tante e diverse, così come le specifiche modalità con cui una riforma del mercato del lavoro si può realizzare, ma fondamentalmente lo stiamo facendo per adattare la nostra economia alle trasformazioni epocali che ci investono, volenti o nolenti.
Ogni Paese ha la sua struttura economica, le sue istituzioni, la sua storia di comportamenti sociali, e ciascun modello nazionale ha una sua coerenza interna che lo rende peculiare. Ad esempio, rispetto all’innovazione e al capitale umano che sono gli elementi chiave della strategia Europa 2020 per rilanciare la crescita europea, ciascun Paese ha il suo specifico "sistema nazionale d’innovazione" per utilizzare una terminologia frequente in letteratura economica. La domanda da porsi è come questa coerenza interna si confronta con il mondo esterno.
Prendiamo, ad esempio, gli investimenti in capitale immateriale che si suddividono in tre grandi categorie: informazione computerizzata (principalmente software); proprietà intellettuale scientifica e artistica (R&S, Progettazione e design); competenze economiche (capitale organizzativo, marketing, capitale imprenditoriale e manageriale). I Paesi del Nord Europa da tempo si sono incamminati su un sentiero di sviluppo che contempla più investimenti privati e pubblici in questo tipo di capitale, e relativamente meno in capitale materiale: questo fenomeno, come ci dice ad esempio l’Ocse, rappresenta un passaggio fondamentale nella transizione verso l’economia della conoscenza. Le caratteristiche necessarie per affrontare questa transizione sono: forti investimenti in capitale umano, alto rapporto tra spesa in ricerca e sviluppo e Pil, minore regolamentazione dei mercati, consistenti investimenti nella riorganizzazione dei processi produttivi, una classe dirigente attivamente coinvolta nelle dinamiche della globalizzazione. Fino alla crisi del 2008, il risultato è stato una crescita sostenuta della produttività del lavoro alimentata molto dal capitale immateriale (Ki/L) e dal progresso tecnico (Ptf) rispetto al capitale tangibile (Kt/L). Da noi, fino alla recessione del 2009, è avvenuto l’opposto.
Si può sostenere a ragione che la crescita in alcuni Paesi è stata gonfiata dal debito (Regno Unito) oppure è stata trainata da un’industria high-tech quasi mono-settoriale (Finlandia). Tutto vero. Ma chiediamoci, con un "esercizio contro-fattuale" ovvero immaginando che in Italia si fossero adottati nel decennio scorso i tassi di accumulazione del capitale immateriale di quei Paesi, come sarebbe cambiata la nostra produttività del lavoro e i salari. Al Luiss Lab abbiamo condotto questa simulazione per il sesto rapporto classi dirigenti di Amc che sarà presentato alla Camera il 5 aprile.
L’esercizio è stato svolto con i parametri stimati in recenti studi empirici: l’idea è che l’adozione e lo sfruttamento economico delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione in ogni ambito dell’economia e della società richiedono investimenti in "conoscenza". Non basta acquistare nuovi strumenti se non ci sono le competenze per renderli efficaci e profittevoli, mentre le competenze stesse si alimentano e generano nuove applicazioni tecnologiche. A lato, i tassi di crescita medio annuo del capitale immateriale complessivo (%K), delle sue disaggregazioni in R&S e in training, e dei loro impatti sulla dinamica produttività del lavoro (Pl) sono quelli che l’Italia ha registrato nel periodo 2000-8. Il secondo e terzo grafico mostrano i tassi di investimento e i loro impatti sulla crescita della produttività che l’Italia avrebbe registrato se avesse adottato le quote di investimento immateriale sul Pil di Regno Unito e Finlandia.
In Italia il tasso effettivo di accumulazione di capitale immateriale (2,1% in media d’anno) è stato circa la metà di quello inglese (4,4% in media d’anno) e poco più di un terzo di quello finlandese (5,7% in media d’anno). La simulazione mostra che se l’Italia avesse allineato le sue quote di investimento in training e R&S sul Pil a quelle di Regno Unito e Finlandia, si sarebbero ottenuti notevoli incrementi della nostra produttività del lavoro. Nel caso in cui il sistema Italia si fosse allineato al tasso di accumulazione di capitale immateriale inglese, il guadagno sarebbe stato pari all’1,8% medio annuo, mentre sarebbe stato del 2,3% nel caso di allineamento al benchmark finlandese: rispettivamente, un contributo triplo e doppio rispetto a quanto è accaduto con il tasso storico di accumulazione italiano nel decennio passato.
I costi per avviare l’Italia su una simile traiettoria di incremento della produttività del lavoro sarebbero stati tutt’altro che irrilevanti: gli investimenti pubblici o privati in capitale immateriale sarebbero dovuti aumentare di circa 35 miliardi l’anno se l’Italia si fosse uniformata al modello inglese, e di ben 85 miliardi l’anno se si fosse uniformata a quello finlandese. Cifre irrealistiche e quasi folli per come è il sistema Italia oggi. La nostra specializzazione industriale in segmenti a intensità tecnologica media e medio-alta può forse aggiornarsi anche con una assai minor spesa per ricerca e innovazione "codificata". Ma il senso di questo esercizio non è di suggerire correttivi o "aggiunte" al modello italiano attuale, bensì di immaginare come potrebbe essere in futuro una diversa economia italiana, nella quale imprese, famiglie e Stato spendono più di quanto non abbiano fatto finora in istruzione e ricerca. Solo questo ci consentirà di partecipare in modo "alto" al sistema della produzione e degli scambi mondiali del futuro: non è forse per questo che si aperto il cantiere del riforme strutturali?