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 2012  marzo 27 Martedì calendario

LA PEGGIO VERITÀ “RACCONTO LA STRAGE CHE TROPPI HANNO RIMOSSO”

Quel giorno Marco Tullio Giordana aveva 19 anni ed era a bordo di un tram. Le luci natalizie, i vetri appannati, un freddo venerdì milanese, Piazza Fontana a 20 metri. L’orologio fermò la storia alle 16,37 del 12 dicembre. In una banca di Milano piena di agricoltori, mediatori e padroncini di risaie. Esplosione: 16 morti, 84 feriti. Era il 1969. L’anno in cui Feltrinelli pubblicava volumi dal titolo profetico La minaccia incombente di un colpo di Stato all’italiana e nei campeggi ci si passava eccitati L’agente segreto di Conrad con il protagonista, Mr. Vladimir, impegnato a indottrinare Verloc, l’agente provocatore infiltrato negli anarchici: “Poiché le bombe sono la vostra lingua, v’insegno con quale filosofia si gettano”. Pinelli, Calabresi, i fascisti, gli americani, i servizi. Burattini e pupari. Complotti e “tintinnar di sciabole”. Slogan, minacce e auspici: “Ankara/ Atene/ adesso Roma viene”. Il clima generale. L’Italia povera come sempre. Il Romanzo di una strage già letto da Pasolini: “Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, uno che cerca di seguire tutto ciò che succede... di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace”. Il regista che raccontò il tramonto di Pier Paolo, Peppino Impastato e le barricate di un ’68 troppo breve da dimenticare ha voluto ricordare ancora. Senza indulgere alle convinzioni di allora: “Se avessi fatto un film da vecchio ragazzo sulle tracce della mia adolescenza, lo avrei sbagliato. Se invece tanti giovani vedranno il film e capiranno perché l’Italia è stata l’unico paese d’Occidente che ha combattuto la Guerra fredda non solo con le spie, ma con le armi e il sangue, la scommessa sarà vinta”.
Com’è iniziata la scommessa?
Quando il produttore Riccardo Tozzi mi parlò per la prima volta del progetto, lo commiserai. Pensavo fosse impossibile racchiudere in due ore 33 anni di processi, ipotesi e depistaggi. Aveva ragione lui, ma c’è voluto tempo, studio, chiarezza. Ho deciso di fare il film quando ho letto una ricerca fra studenti: “Piazza Fontana? Le Br no?”. I ragazzi di oggi non sanno nulla di quella mattanza, volevo un’opera rivolta a loro.
La complicazione maggiore?
Limitare l’arco degli avvenimenti fermandosi all’omicidio del commissario Luigi Calabresi. E fare di lui e di Giuseppe Pinelli, il ferroviere anarchico che volò da una finestra della questura di Milano tre giorni dopo la bomba, non due figure stancamente antitetiche, ma speculari.
A parte la strepitosa bravura di Mastandrea e Favino, come ha fatto?
Ho provato a evitare santificazioni o processi a posteriori, rappresentando le loro solitudini al di fuori delle ideologie. Piazza Fontana è l’anno zero, il vero inizio della Seconda Repubblica. Tutto ciò che è piovuto dopo, terrorismo compreso, è una conseguenza. Senza la strage, non sarebbe nata l’idea malata che l’unico conflitto possibile con lo Stato fosse quello armato.
Un’opzione rischiosa.
Sì perché fa scattare automaticamente i mantra ripetuti per decenni da entrambe le fazioni senza verifiche o approfondimenti.
Il film è più per i giovani che non sanno nulla o per i troppi che credono di sapere tutto?
A tutti. A quelli che, una volta scoperte le manine dei servizi e i tentativi di inquinare il quadro, hanno smesso di credere nella democrazia. E a tutti gli altri che, chiusa nella memoria dell’epoca un’idea preconcetta sugli avvenimenti, preferirono buttare per sempre la chiave di un’ulteriore comprensione.
Chi era per lei Calabresi?
Un idealista al pari di Pinelli. Due figure tragiche, due solitudini tradite da una trama superiore alle loro forze. Con Calabresi ho provato ad andare fino in fondo e a lui ho cominciato a pensare fin dal giorno della sua morte, nel maggio 1972.
Venne ucciso sotto casa da un commando di Lotta Continua.
Sono sempre stato contro la violenza, ma quando morì provai un profondo senso di colpa. La campagna d’odio orchestrata da Lotta Continua (ma non solo) contro il poliziotto torturatore aveva suggestionato anche me. Anche per via delle bugie della Questura sulla morte di Pinelli
Il figlio Mario sostiene che dal film quella campagna sia sparita.
Secondo me non è vero, nel film la campagna d’odio c’è e lo spettatore se ne rende perfettamente conto. Ma capisco che per la famiglia Calabresi nessun risarcimento sia sufficiente. Nessuno può restituire nè il padre nè il marito.
Teme reazioni dalla lobby di Lotta Continua?
Se ci fossero, sarebbero un automatismo deludente. Ma, già prima ancora che esca il film, registro bordate inutili e deprimenti.
Tra le molte bugie che “Romanzo di una strage” aiuta a cancellare, c’è quella su Calabresi presente nella stanza dell’interrogatorio quando Pinelli precipita.
Delle due l’una: o Calabresi era colpevole e dunque andava tolto dalla scena del delitto; o era innocente e davvero non era lì. La verità è la seconda, come è emerso dalle univoche testimonianze e risultanze processuali: l’ha ammesso anche Adriano Sofri. E poi è impossibile che Calabresi fosse così cinico da defenestrare Pinelli nella propria stanza e poi continuare a lavorare ogni giorno in quella stanza come se nulla fosse accaduto.
In caso contrario non avrei potuto girare il film.
“Romanzo di una strage” teorizza che alla Banca dell’Agricoltura, il 12 dicembre 1969, esplosero non una, ma due bombe.
Una delle ragioni per cui è difficile fare un’indagine sul presente è che gli anni restituiscono frammenti e prove che in tempo reale non si colgono nella loro essenza.
O spariscono.
Esattamente. A metà anni 90 lo storico Aldo Giannuli ritrovò, in un archivio abbandonato dell’Ufficio Affari Riservati del Viminale a Forte Boccea, una miccia e alcune informative del servizio militare che all’epoca erano state manipolate. Elementi che non comparvero al processo di Catanzaro e quindi, per la giustizia, non esistono.
Cosa significa la miccia?
Un tasselli che, pur non incompatibile col timer subito rinvenuto, fa pensare a un doppio innesco e dunque a una doppia bomba. Teoria che fra l’altro spiega i due diversi odori di esplosivo nella banca subito dopo lo scoppio. E il cratere troppo profondo per essere provocato da un solo ordigno.
Teoria affascinante che rimanda all’incendio del Reichstag, a Portella della Ginestra e persino all’attentato dell’Addaura: dietro c’è sempre un doppio Stato.
La ricorrenza della doppia valigetta è una costante dei misteri italiani. Per sapere cosa sia avvenuto esattamente a Piazza Fontana bisognerebbe essere stati nella testa degli attentatori. Io mi sono limitato al verosimile, che spesso coincide con il vero.
Come andò secondo lei?
Io credo che i colpevoli siano i fascisti veneti di Ordine nuovo (Freda e Ventura, come ha confermato la Cassazione nell’ultimo processo di Milano) con la collaborazione dei servizi segreti, italiani e americani. La prima bomba la mise un sosia di Pietro Valpreda che bazzicava gli ambienti anarchici, per far pagare il conto a loro. La seconda fu opera di servizi italiani e “atlantici”. Ognuno pensava ai propri affari e i servizi, che infiltravano tutti, anarchici e neri, diedero via libera alla manovalanza di destra per usarla e poi magari arrestarla. Intanto lo scopo era quello di piegare la mano al governo Rumor perché proclamasse almeno momentaneamente lo Stato d’emergenza per frenare l’avanzata delle sinistre. L’Italia era l’unica democrazia del Mediterraneo, fra la Grecia dei colonnelli e la Spagna di Franco.
Il film ricalca la tesi del libro a tema di Paolo Cucchiarelli?
Neanche un po’. Ho letto il suo volume assieme a molti altri. È interessante, ma non va preso a scatola chiusa. Anche se, ora che lo attaccano tutti, mi vien voglia di difenderlo. Questo non significa che io sposi in toto le sue deduzioni. Lui è convinto che la prima bomba potrebbe averla piazzata Valpreda a scopo dimostrativo, da far esplodere a banca chiusa; e che Pinelli sapesse di quelle bombe-petardo anarchiche che, da dimostrative, nelle mani sbagliate, divennero letali. Per dimostrarlo, dà voce a una fonte anonima dei servizi. Ma, se non puoi rivelare la fonte, io non ti credo.
Perché?
Sapete quante persone mi hanno raccontato cos’era successo la notte in cui morì Pasolini? Un’infinità. Quando chiedevo loro di ripetere il racconto davanti al magistrato, giravano le spalle. Per quanto suggestiva e verosimile sia una tesi, è inevitabile che s’infranga contro la mancata narrazione con nomi e riscontri.
Nel film c’è un tragico Moro, interpretato da Fabrizio Gifuni.
Mi piacerebbe raccontare la sua figura, magari a teatro. È un’altra solitudine straziante. Un’altra figura centrale della nostra storia, su cui non sappiamo fino in fondo quale partita si sia giocata.
Perché non un film su di lui?
Ci ha già provato e bene Bellocchio. Non me la sento di sfidarlo.
Neanche in una dimensione meno onirica?
Il sogno sulla liberazione di Moro rende la conclusione drammatica dei fatti ancor più atroce.
Nel film brilla anche un’altra figura complessa, il numero due dell’Ufficio Affari Riservati, Federico Umberto D’Amato.
Uno strano caso di vice più forte del suo capo. Il suo superiore, Catenacci, informava Freda e Ventura delle indagini sul neofascismo svolte a Padova dal commissario Juliano. E lui smistava veline, tenendo nel tempo libero rubriche gastronomiche sull’Espresso fondato da Scalfari.
Sofri rivela che D’Amato gli propose un delitto su commissione.
L’ho sentito dire, non ho mai visto il documento. Ma non mi stupirebbe. Sofri dovrebbe decidersi a raccontare tutto per intero, perché si possa voltare pagina e aprire un nuovo capitolo. Nel film D’Amato ha un dialogo illuminante sulla strage con il commissario Calabresi. Descrive il regno del caos, un sistema di gestione dell’esistente fondato sull’ambiguità. Più tardi, per manipolare gli italiani, non ci fu nemmeno più bisogno delle bombe e dei depistaggi: bastò usare la televisione.
Come da Piano di Rinascita Democratica di Licio Gelli.
Quasi la stessa cosa in un contesto immobile, indifferente. La normalità italiana è questa: dopo la strage i tram seguitarono a lisciare le rotaie, i giornali a uscire, i telefoni a funzionare...
Oggi nella politica italiana, fin dai palazzi più alti, c’è voglia di rimozione, dimenticare e archiviare il passato più nero con la scusa dell’emergenza e del “voltar pagina”. Il film è in controtendenza.
Il divorzio di questa nostra politica mediocre e insopportabile dalla verità è ciò che la condannerà alla perdizione. Ma, se i nostri politici non sanno far altro che compromessi e scambi, gli intellettuali devono fare il mestiere opposto: non per fare gli incendiari, ma perché non c’è cosa più normale al mondo che cercare la verità. Come dice Donald Sutherland in JFK, “la gente ha un debole per la verità”.