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 2012  marzo 26 Lunedì calendario

Il moschettiere della passione – "D I TUTTO è rimasto un poco". È il primo verso della poesia Residuo, di Drummond de Andrade, un poeta amatissimo da Tabucchi, che lui mi ha fatto conoscere anni fa

Il moschettiere della passione – "D I TUTTO è rimasto un poco". È il primo verso della poesia Residuo, di Drummond de Andrade, un poeta amatissimo da Tabucchi, che lui mi ha fatto conoscere anni fa. Uno dei tanti regali di Antonio. Credo che al di là delle grandi celebrazioni, sia quel "poco" ironico e raro che lo renderà indimenticabile. Ciò che è "poco" è spesso anche prezioso, e Antonio usava spesso la parola "prezioso" per la letteratura, per l’impegno civile e per i sentimenti. E di Antonio mi tornano in mente pochi ricordi, forse perché non vorrei staccarmene. Una sera a Pisa, a una tavolata, qualcuno parlava del "tormento" della scrittura, del rovello di tornare sulla pagina. «A me non succede mai - disse Antonio con un sorriso angelico -. Io mi sveglio tutte le mattine alle cinque, lavoro cinque ore di fila, poi correggo al massimo una o due righe. Così in pochi mesi ho scritto Sostiene Pereira ». tori ad aiutarmi: una nipote riccioluta e svelta per cui lui non si preoccupava di nascondere un amore immenso. E siccome io sono madre ed ero arrivata lì come fanno le madri quando partono, che perdono un poco la bussola, allora subito attaccai a parlare del mio bambino, e mi rilassai. La seconda cosa è che mi offrì un caffè. In casa con noi c’era una signora addetta alla cucina che si offrì di prepararlo. Io ero molto tesa e non avrei preso il caffè così tentai: "tu lo prendi?" e lui mi rispose che no: avrebbe preso un superalcolico. Pure io avrei preso un superalcolico, pure io lo presi. È bello prendere un whiskey con Tabucchi alle cinque del pomeriggio a Lisbona, è come se te lo avesse offerto direttamente dalla copertina del suo ultimo libro quell’autore che per la tua generazione è stato un riferimento. Poi parlammo bene di Lisbona e bene di Napoli, mi ricordo che non riuscivamoa nominare l’allora presidente del consiglio, l’aria era bassa e indolente e non era il caso. Parlammo male degli editori. Io, istintivamente e, anche dopo, ponderatamente, gli davo ragione perché lui aveva da lì la giusta distanza per dire le cose. Ecco, il senso che mi piace ricordare oggi di Tabucchi è che aveva come scrittore che aveva scritto tanto, con cifra inconfondibile di umanità, come età, e come suo esilio auto-eletto, la distanza giusta dalle cose, per cui io gli ho sempre creduto. Era lui generoso con me, mi mandava link di interviste in del mattino con il mal di schiena quanta vita ci mette dentro un computer. Quando Repubblica mi ha chiesto di scrivere per lui ho spiegato che mi sembrava una richiesta impropria perché era lui a essere generoso con me. È stato tanto generoso che in quell’ultima lettera mi ha regalato un’etimologia e un invio che non posso ignoraree che sento di dover trasmettere ad altri. Dunque mi diceva che sarebbe venutoa "Un’altra Galassia 2012": Oxalà, come si dice in portoghese, che è l’Inchallà che hanno lasciato gli arabi. E poi mi diceva che terminava la lettera perché il dolore stava passando e se ne tornava a letto. Mi ha salutato così: Aspetto il libro. Un caro saluto e stai allegra. Dopo due minuti di imbarazzato mutismo conviviale, Tabucchi scoppiò in una risata e disse: «Vi ho mentito. Non è vero niente, anche io ci metto dei giorni per scrivere una pagina, l’ho detto solo per farvi arrabbiare». Era leggero e severo Antonio, due aggettivi che sembrano scontrarsi. Era leggero per il suo sorriso da moschettiere, per la dolcezza della conversazione, per la passione con cui parlava dei suo amori letterari. Ma se qualcosa non gli piaceva il moschettiere sfoderava la spada, la sua conversazione diventava affilata e polemica, e non risparmiava agli altri scrittori nessuna critica, soprattutto se udiva cantarellare la parola "disimpegno". La sua prosa melodica, la "musica barata" che sembrava uscire di notte da un finestra di Lisbona o di Rio, poteva diventare uno squillo. I suoi articoli sulla realtà italiana erano forti, e mai inefficaci, si arrabbiava ma riusciva anche a far arrabbiare gli altri. Non recitava duelli, scendeva in strada. Credo che Antonio abbia sofferto molto per quello che è successo nel nostro paese negli ultimi anni. Non per furore ideologico, o ritualità provocatoria. Ma perché non concepiva l’idea di uno scrittore che non si ponesse il problema del potere. «Tornare in Italia qualche volta mi fa paura» mi disse una volta. Non era la paura di chi non combatte, era la paura di vedere offese le cose che amava. Ed ecco un altro ricordo. Una sera a un concerto disse: «Mi piacerebbe essere un suonatore di chitarra, o di qualsiasi strumento, che canta, si abbandona alla musica e dimentica tutto». E perché non lo fai? gli chiesi. «Perché immagino la scena: a metà della canzone un pensiero, o la faccia di un spettatore, qualcosa mi fa arrabbiare, prendo la chitarra e il microfono, spacco tutto e addio concerto». Non era nello stile di Antonio fracassare strumenti musicali, ma è vero che la sua prosa elegante, danzata, diventava ruvida e feroce quando parlava di ciò che lui riteneva ingiusto. Anche se tutto era illuminato dal suo sorriso, dal contrappunto delle sue battute a bassa voce. Quando Alberto Rollo mi ha detto che Antonio non stava bene, mi ha raccontato che stava lottando con coraggio e con speranza. Immagino che se gli avessi chiesto se era malato, avrebbe risposto "un poco". O mi avrebbe raccontato una fantasiosa diagnosi per sbalordire e divertirsi. Ha avuto molti riconoscimenti meritati in vita, Antonio, ma non ne parlava troppo,e ci scherzava pure («il Premio non era male ma il vino faceva schifo»). Una volta lo vidi davvero felice: era rimasto sorpreso per il lunghissimo, affettuoso applauso con cui lo avevano accolto gli studenti di un’università. Immagino che il premio di quell’affetto accompagnerà sempre il suo ricordo e i suoi bellissimi libri. A noi mancherà tantissimo, ma per farlo sorridere diremo che ci manca soltanto un poco.