Alessandro Penati, la Repubblica 26/3/2012, 26 marzo 2012
Capitalismo tricolore a lezione dalla Apple – APPLE vale 560 miliardi di dollari: al cambio attuale, da sola capitalizza più di tutte le società italiane quotate (520 miliardi)
Capitalismo tricolore a lezione dalla Apple – APPLE vale 560 miliardi di dollari: al cambio attuale, da sola capitalizza più di tutte le società italiane quotate (520 miliardi). Basterebbe questo per capire quanto la Borsa italiana sia diventata irrilevante. Le aziende italiane che oggi valgono in Borsa più di un miliardo di dollari sono appena 63: di queste, però, Prada è quotata a Hong Kong, Benetton è in procinto di andarsene ed Exor è una specie di duplicato del gruppo Fiat. Ne rimangono 60. Di queste, 18 sono banche o assicurazioni; 20 hanno lo Stato o enti locali come azionisti di controllo, o gestiscono servizi regolamentati, oppure operano grazie a concessioni o licenze: in altre parole, il loro valore deriva in un modoo nell’altro dai rapporti col settore pubblico. Quelle private, che non hanno a che fare col pubblico, e non sono banche, sono solo 22e valgono, complessivamente, 82 miliardi di dollari. Con la liquidità che ha in cassa, Apple se le potrebbe comprare tutte in un colpo solo. Un’irrilevanza, quella di Piazza Affari, che non sembra preoccupare. È convinzione diffusa che i valori di Borsa non abbiano alcuna relazione con la realtà economica delle aziende; che la Borsa non serva a crescere, dato che negli ultimi anni sono stati distribuiti più dividendi che capitali raccolti; e che le imprese sane si autofinanzino gli investimenti.I problemi dell’Italia sono altri: crescita, occupazione e reddito delle famiglie. Ma poiché non ci sarebbe alcuna relazione tra l’aumento dei valori in Borsa e quello degli occupati, o del loro reddito, il mercato azionario è solo un capitalismo di carta. Poco importa se diventa irrilevante. Salvo battere la grancassa dell’interesse nazionale, quando c’è da sottoscrivere gli aumenti di capitale delle banche; o quando lo Stato voleva privatizzare. Niente di più sbagliato. Il declino della nostra Borsa rispecchia quello del nostro sistema economico, ne evidenzia le debolezze,e spiega l’incapacità di crescere, creare occupazione, e aumentare il reddito degli italiani. Il caso Apple può aiutarci a capire. In Borsa, Apple vale quasi 5 volte il suo patrimonio netto: un valore disconnesso dalla realtà? Il patrimonio contabile di una società è la somma dei capitali conferiti dagli azionisti e degli utili accantonati. Il mercato gli attribuisce un valore maggiore se si attende una crescita degli utili superiore al passato, perché pensa che la redditività degli investimenti dell’azienda aumenterà. Un valore elevato rispetto al capitale contabile non significa bolla finanziaria, ma grandi opportunità di investimento, capacità gestionali e alta redditività del capitale. Come nel caso di Apple. Il multiplo medio delle società quotate alla Borsa italiana è appena 0,9; tolte le banche, sale a 1,1. Perché il nostro capitalismo investe in settori maturi, con opportunità di crescita e redditività degli investimenti contenute. Le uniche due società con multipli superiori ad Apple sono Prada e Ferragamo: modae stilisti fanno bene all’Italia, ma in un Paese con 60 milioni di abitanti non si può puntare solo su borse, scarpe e vestiti per far crescere il reddito futuro. Apple ha 63 mila dipendenti, meno di quanti ne aveva Fiat nel 1940. Perché quasi tutta la produzione e assemblaggio è delocalizzata, per gran parte in Asia. È vero che non c’è relazione tra valutazioni di Borsa e occupazione; ma c’è con il reddito medio dei dipendenti. Le aziende con alti multipli sono quelle ad alta redditività del capitale e ad alto valore aggiunto per dipendente. I dipendenti americani di Apple saranno pochi, ma molto qualificati e ben pagati. Oggi, immagine, marchio, qualità, rete di distribuzione, innovazione, logistica, automazione rappresentano la fetta maggiore, e crescente, del valore di un prodotto, anche tradizionale. Più l’economia di un Paese si concentra su queste componenti del prodotto, più elevate le qualifiche necessarie all’azienda, e il reddito medio dei suoi dipendenti. I multipli contenuti dei settori tradizionali in cui è mediamente investito il capitale italiano, significano stipendi mediamente bassi. Minori le qualifiche necessarie alle produzioni, inoltre, maggiore il rischio di delocalizzazione: il nostro manifatturiero delocalizza come Apple; ma i dipendenti che rimangono in Italia sono pagati molto meno che a Cupertino. La Borsa serve a far crescere le aziende perché le azioni quotate sono la miglior moneta per pagare le acquisizioni, e la miglior garanzia per l’accesso al credito. Lo fa anche indirettamente, perché facilita gli investimenti in società non quotate, fornendo una eventuale via per monetizzarli; e agevola le aggregazioni fuori borsa, offrendo facili parametri di valutazionea cui fare riferimento. Ma la maggioranza delle imprese italiane non se ne è servita: meglio restare sottodimensionati, per non pregiudicare il controllo familiare, o non pagare i costi di trasparenza impliciti nella quotazione. Imponendo così un costo per tutti: nanismo e controllo familiare pregiudicano la crescita di una classe manageriale e la domanda di importanti figure professionali (pensate a quanti esperti di pianificazione e logistica servono a Ikea, al confronto con anche il più creativo dei mobilieri della Brianza); le dimensioni contenute limitano l’attività di ricerca e sviluppo, che ha elevati costi fissi e forti economie di scala; e senza un efficiente mercato dei capitali, l’apporto di private equity e venture capital allo sviluppo delle aziende diventa risibile. Piazza Affari è lo specchio dell’economia italiana: e non riflette una bella immagine.