GIANNI RIOTTA, La Stampa 27/3/2012, 27 marzo 2012
L’AGENDA GLOBAL DEL PREMIER
Nella zona cosiddetta «smilitarizzata», 256 chilometri di lunghezza per 4 di profondità tra le due Coree, una delle frontiere che dal 1953 è in realtà tra le più armate del pianeta, vivono come in un parco naturale specie selvatiche ormai scomparse altrove, fenicotteri, gru rosa, leopardi rarissimi in Asia, orsi. Transito commerciale ed edilizia sono vietati, la foresta e gli animali prosperano tra sensori termici, radar, cellule spia, un mondo ibernato da mezzo secolo. È l’orizzonte che ha guardato, con i potenti binocoli dell’avamposto Ouellette, il più avanzato a Nord di Camp Bonifas, il presidente Barack Obama, nella sua visita in Corea del Sud per il vertice sulla Sicurezza nucleare di Seul, cui partecipa anche il presidente del Consiglio Mario Monti.
È come se due mondi si incontrassero, tra filo spinato, torrette e mitragliatrici. Quello della Guerra Fredda, con la Corea del Nord guidata dall’incerto Jim Jong-un, nipote del fondatore della dinastia comunista Kim Ilsung, che finge di negoziare sul nucleare con l’Occidente chiedendo aiuti alimentari agli Usa, mentre, schermandosi dietro la Cina, progetta di lanciare un missile Unha-3 dalla base di Dongchang-ri nel centenario della nascita di nonno Kim.
Equello dell’opulenta Corea del Sud, passata in solo due generazioni dal feudalesimo affamato della guerra civile a democrazia, stabilità, benessere.
È la Corea del Sud a capeggiare la lista dei «next 11», i prossimi undici Paesi che raggiungeranno Cina, India, Brasile e Russia nella prosperità, secondo l’economista O’Neill di Goldman Sachs: Bangladesh, Egitto, Indonesia, Iran, Messico, Nigeria, Pakistan, Filippine, Turchia, Vietnam.
Il mercato e lo sviluppo non sono molto di moda, dopo la crisi finanziaria del 2007, ma chi alle mode preferisce la dura maestra Realtà non ha che da guardare alle due Coree, una fissa nel Medio Evo nucleare, l’altra protagonista del XXI secolo, per comprendere in che direzione soffi il vento della Storia.
Nelle missioni del presidente Obama e del premier Monti, fra tratti comuni e dossier diversi, questo è il fulcro. Durante la Guerra Fredda i leader cercavano legittimità, trattati e affari, con visite di Stato a Washington e Mosca. Ora è nei Paesi nuovi che si insegue forza diplomatica e qualche buon affare. Monti ha incontrato il premier kazako Karim Masimov (era previsto anche un vertice col presidente Nursultan Nazarbayev): il nostro Paese è, con l’Eni, impegnato nello sviluppo di un gigantesco giacimento offshore a Kashagan, 4500 chilometri quadrati, Nord del Mar Caspio.
Anche Obama, tra il summit con il presidente cinese uscente Hu Jintao sui rischi nucleari in Iran e Corea, pensa alla stabilità e all’economia. Ha proposto al premier turco Recep Tayyip Erdogan di mandare ai ribelli siriani medicine e mezzi di comunicazione elettronica, cercherà di avere dal premier pakistano Yousef Raza Gilani assicurazioni contro il mercato nero di materiale nucleare, spesso rifornito da Islamabad. La sua missione è però agire da statista internazionale in un anno elettorale, mentre i rivali repubblicani Romney e Santorum si impegolano in petulanti comizi di provincia.
Anche Monti, dal summit di Seul ai vertici con Cina e Giappone, ha la sua agenda domestica. Gli arrivano i dispacci con le dichiarazioni su riforma del lavoro e articolo 18, e ha dovuto rigettare la cinica battuta di Giulio Andreotti, «tirare a campare meglio che tirare le cuoia». Le trasferte di Obama e Monti dovrebbero parlare con forza alle opinioni pubbliche dei due Paesi. Ricordare loro di un mondo in cui «globale» e «locale» contribuiscono a indicare, come latitudine e longitudine, gli stessi punti, perché non c’è soluzione «internazionale» che non debba misurarsi poi con i talk show di Washington e Roma, né proposta «domestica» che non sia vagliata sul web nei tinelli di Pechino e Mosca.
Tutti i protagonisti del dibattito sull’articolo 18, spesso condotto al di là dei torti e delle ragioni con un occhio alle prossime elezioni amministrative e politiche, o alle rendite di posizione di imprenditori e sindacati, dovrebbero inserire i giudizi di parte nella cornice planetaria di Seul. Dove la tensione con l’Iran fa lievitare il prezzo del greggio di 20 dollari, un attacco a Teheran fermerebbe la ripresa mondiale, il debito greco può impedire a Obama il ritorno alla Casa Bianca, un fisico nucleare corrotto in Pakistan armare di atomica i terroristi, le tensioni del partito comunista cinese allungare la recessione al 2013. Un solo mondo, una sola economia, tutti insieme sicuri, tutti insieme in pericolo, niente oasi, niente zone franche per animali liberi come nella Dmz tra le due Coree.
Mentre Mario Monti è in Asia, non stiamo decidendo a Roma le regole del mercato del lavoro «italiano», come se potessimo prescindere dai mercati di Wall Street, dal giudizio Bce di Francoforte, dal modo di produzione asiatico e occidentale, dal commercio cinese e indiano, dalla crescita coreana e indonesiana. Ormai le stesse regole valgono per tutti. Magari Monti, guardando alla Seul ricca oggi e così povera solo qualche lustro fa, penserà al nostro Sud, che con le stesse chances potrebbe saltare in una generazione dall’arretratezza all’high tech. Perché non stiamo parlando di «noi», del «nostro» mercato del lavoro. Stiamo decidendo quanto lavoro sarà assegnato all’Italia nel mansionario del mondo globale. Perché siamo sì una Repubblica fondata sul lavoro, ma solo una delle tante repubbliche a contendersi lavoro nel mondo.