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 2012  marzo 28 Mercoledì calendario

Secondo Ettore Scola, che feceunodeipiùbeifilmpolitici italiani, La terrazza , Fellini «fu il più politico, contro ogni apparenza, dei registi italiani»

Secondo Ettore Scola, che feceunodeipiùbeifilmpolitici italiani, La terrazza , Fellini «fu il più politico, contro ogni apparenza, dei registi italiani». Eppure se pensiamo a lui oggi ci viene inesorabilmente in mente il maestro della Dolce vita , l’artista che inventò Mastroianni, e in un certo senso il moderno maschio metrosexualetormentato,oallimiteilcorsivista feroce dei Vitelloni. Certo per film politici pensiamo ad altri, a Petri, al vecchio Rossellini, a Bertolucci di Novecento , o ad attori come Gian Maria Volontè. E invece no: anche Fellini era intimamente attratto dalla politica, e per di più - sorpresa - da una politica non aliena dai rapporti, le amicizie, il milieu democristiano... Anchese ripeteva «non la capisco, non fa per me»: «Tutto quello che posso dire di politicasibasasolosuirapportipersonali e su questo sentimentoambiguo e del quale però mi fido: la simpatia». Nei vent’anni dal 1974 al 1993, Fellini si era avvicinato umanamente a un rapporto intenso con chi meno t’aspetti: Giulio Andreotti. Un rapporto epistolare, di cui è prova adesso il carteggio inedito che compare in Viaggio al termine dell’Italia. Fellini politico , di Andrea Minuz (Rubbettino). Ma anche un rapporto telefonico e di incontri diretti, sorprendente per certi toni, e per taluni aspetti spiazzante. Andreotti, è noto, ha avuto un rapporto decisivo e complesso col cinema italiano. Fu sottosegretario di De Gasperi con delega al cinema. Nel ‘49 fu lui a emanare la legge che incentivava il cinema italiano, ma lo sottoponeva anche al vaglio di un’occhiuta commissione di controllo. Per capirci, trovò che in Ladri di biciclette c’erano «troppi stracci», ma fu anche lui a difendere Rossellini, che un senatore americano aveva chiamato «cocainomane». Un po’ censurava, ma poi, anche, democristianeggiava. Fellini non votò mai per il Pci (anche se fu in prima fila ai funerali di Berlinguer) e solo una volta per la Dc (nel ‘76, le elezioni del temuto sorpasso), in genere oscillava tra repubblicani e socialisti. Da Andreotti, però, fu subito attratto, e glielo disse: «Mi piacerebbe moltissimo chiacchierare una notte intera. È un personaggio da corte shakespeariana come Otello». E Andreotti: «La Dolce vita fu indicativo di un periodo e sono state scritte innumerevoli pagine per disputare se Federico partecipasse del consumismo da via Veneto o volesse metterlo alla berlina. Ma io credo che il poeta non sia e non debba essere finalizzato né alla censura né alla difesa di una follia gaudente». Il divo Giulio rivelò «sì, ero amico di Federico, moltissimo. Mi telefonava spesso, in occasione delle mie vicende giudiziarie, e da lui ho avuto le parole più belle di solidarietà e amicizia». In alcuni punti le lettere paiono quasi di amorosi sensi. Andreotti aveva amato molto, e lo scrisse, Prova d’orchestra , Fellini gli mandò questo biglietto, «caro Presidente, ho letto sull’ Europeo l’esatta, intelligente equilibratissima analisi che lei fa del mio lavoro», il che non sempre riesce ai critici, notava. Dopo Ginger e Fred il maestro scrive al politico «caro Giulio, mi fa tanto piacere chiamarla così...», segno che ormai c’era affetto, e quasi confidenza. Invitano Fellini a far parte del Consiglio della Fondazione Fiuggi, sezione spettacolo, e lui domanda ad Andreotti: «Può farmi sapere, tramite l’amico Evangelisti (l’amico Evangelisti!, nda.) se è una cosa che la interessa vivamente, o una delle tante iniziative in cui la coinvolgono?». Parlano di Berlusconi, nel periodo in cui il regista si oppone duramente agli spot nei film in tv - introdotti nel ‘91 proprio da Andreotti, per non rompere con Craxi - ma Fellini con Silvio è tutt’altro che astioso: «Caro Giulio, la tua premurosa telefonatina di ieri sera mi ha sorpreso e toccato. Sei proprio molto simpatico! Ammiro e invidio la tua generosa disponibilità verso gli amici. Proverò anche a telefonare a Berlusconi per ringraziarlo dell’omaggio estremamente amichevole». Gentilezza ai limiti della cortigianeria, si dirà; ma Fellini era così, anche se non è vero che vivesse su un altro pianeta. Per i 72 anni di Andreotti gli manda una caricatura del divo Giulio in tenuta papale, benedicente e beffardo, e la didascalia recita: «Anche se la sede non è ancora vacante, accetto di buon grado la tua benedizione». Ironico e pragmatico, un ritratto dell’italianità.