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 2012  marzo 28 Mercoledì calendario

CORRADO STAJANO SUL CORRIERE DELLA SERA

Furono anni torbidi, furono anche anni fervidi. La strage di piazza Fontana, per Milano e per l’intero Paese, fu una ferita profonda. Ma la città seppe resistere rivelando il meglio di se stessa. Basta guardare ancora una volta le immagini dei funerali delle vittime, in piazza del Duomo, tre giorni dopo la bomba nel salone della Banca nazionale dell’agricoltura che aveva lo scopo di distruggere le fondamenta della Repubblica e della Costituzione. La piazza, quella mattina, era color del piombo fuso, la copriva una cappa di nebbia, rotta soltanto dalla fioca luce dei lampioni che rischiaravano un poco la marea di donne e di uomini sgomenti di dolore. Dalle fabbriche di Sesto San Giovanni arrivarono a migliaia le tute bianche della Pirelli, le tute blu della Breda, della Magneti Marelli, della Falck che fecero da servizio d’ordine. La borghesia consapevole e la classe operaia formarono allora, con la serietà dei momenti gravi, un corpo unico nella città affratellata. Il possibile golpe, si può dire, fallì quel giorno.
Non deve esser stato facile per Marco Tullio Giordana, il regista dei Cento passi e della Meglio gioventù, rappresentare, quasi mezzo secolo dopo, con il suo Romanzo di una strage, quel che avvenne in quei giorni e in quegli anni, la macelleria dei corpi, il sangue, le trame eversive, le collusioni e i tradimenti di chi aveva il dovere di tutelare la Repubblica e complottò invece per abbatterla e dar vita a uno Stato autoritario.
12 dicembre 1969, la strage. 15 dicembre 1969, l’arresto di Pietro Valpreda e la morte del ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli, la diciottesima vittima. Il commissario Luigi Calabresi è nel film il vero protagonista; un eroe, è stato detto, l’uomo che aveva capito la verità. Nel 1972 sarà la vittima innocente dello spirito di violenza, ma quella notte in Questura, davanti a cinque giornalisti, il suo comportamento non fu diverso da quello dei suoi superiori.
La stanza del questore Guida sembrava più un morbido salotto che un ufficio di polizia. Esordì così, Guida, che nel 1942 era stato direttore del confino politico fascista di Ventotene: «Gravemente indiziato di concorso in strage, Pinelli aveva gli alibi caduti. Un funzionario gli aveva rivolto contestazioni e lui era sbiancato in volto. Il dottor Calabresi aveva allora momentaneamente sospeso l’interrogatorio per andare a riferire. Nella stanza si stava parlando d’altro, una pausa, quando il Pinelli ebbe uno scatto improvviso, si gettò verso la finestra socchiusa perché il locale era pieno di fumo e si slanciò nel vuoto. Il suicidio è una evidente autoaccusa».
Un giornalista chiese chi era Pinelli. Rispose Calabresi: «Sembrava un uomo incapace di ricorrere alla violenza, un uomo tranquillo, ma i suoi rapporti, le sue implicazioni politiche dovevano rivelare il contrario». Chiese un altro giornalista qual era stata l’ultima domanda a Pinelli, quali le ultime cose dette e se esistevano i verbali. Nessuno rispose, senza mostrare imbarazzo. Il giornalista ripeté la domanda, Guida disse allora che l’interrogatorio non comprometteva altre persone. «Era stato convalidato dalla magistratura il fermo che durava da 72 ore?» domandò un altro giornalista. Il questore rispose impudentemente di sì, poi parlò d’altro. Uno dei cinque giornalisti chiese a Calabresi come mai non era sceso in cortile a vedere Pinelli. Di nuovo silenzio.
A colpire, in quella notte difficile da dimenticare, era la percezione che quegli uomini dello Stato non mostrassero neppure un moto di amarezza e di dolore per la morte di un uomo entrato da libero cittadino in Questura e uscito morto. Erano responsabili della sua vita: cinque uomini, in una piccola stanza, non riuscirono a impedirgli di buttarsi dalla finestra lasciata aperta?
Calabresi è stato giudicato innocente dalle inchieste della magistratura. Ma esiste soltanto la responsabilità penale? Si avvertiva quella notte una sottile euforia: la pratica Pinelli era chiusa e con quella morte poteva chiudersi anche la pratica più grossa, la strage.
La città, la società, nel film di Giordana, sono assenti, come le atmosfere di allora. Non c’è traccia del conflitto tra innocentisti e colpevolisti, profondo, e neppure dei tentativi appassionati dell’altra Italia alla ricerca della verità, diversa da quella ufficiale. Ci sono molti buchi nel racconto. Non si sa quasi nulla di Pietro Valpreda, il predestinato capro espiatorio della tragedia. Non sono sufficienti, poi, quei ritagli del giornale e poche scritte sui muri per rendere l’ossessiva campagna denigratoria di Lotta Continua contro Calabresi accusato di essere l’assassino di Pinelli.
Il film gioca di continuo, pericolosamente, tra realismo e finzione. È «liberamente tratto» dal librone di Paolo Cucchiarelli, Il segreto di Piazza Fontana, ambiguo, con fonti non verificabili.
Moro, il ministro degli Esteri di allora, impeccabilmente interpretato da Fabrizio Gifuni, ha una parte sovrabbondante, un jolly utile per raccontare ciò che serve, ma chi visse il dramma della strategia della tensione non fu mai a conoscenza di quella scelta così progressista di Moro, del suo misterioso dossier che svelava il carattere golpista e neofascista della strage, mostrato a Saragat.
Nel film, Federico Umberto D’Amato, a capo degli Affari riservati, offre a Calabresi di diventare il suo braccio destro al Viminale e fa assurde rivelazioni che ancora una volta stravolgono quel che si sa dagli atti dei processi, dalle inchieste, non poche, di quegli anni. Un altro scoop, poi: furono due i taxi e due le bombe scoppiate in quel tragico buco della banca. Una rossa, gentile, solo per spaventare un po’, portata da Valpreda; e una nera, per uccidere e dare avvio allo stato di emergenza, portata da Sottosanti, il sosia. La fonte? Cucchiarelli, a pag. 641 del suo libro. Di nuovo i doppi estremismi, le piste rosse e quelle nere.
Un gran garbuglio reso ancor più fosco mezzo secolo dopo, tra mister X, legionari e spioni, trafficanti di armi e di esplosivi, la Grecia dei colonnelli, gli infiltrati ovunque, i partiti, tutti, informati e silenti, gli uomini dello Stato dal doppio o triplo gioco.
I ragazzi che non sanno cosa sia successo nel pomeriggio di tanti anni fa in quella banca di Milano, vicina all’Arcivescovado, non avranno da questo film lumi per capire.
Giustizia non è stata fatta. Lo Stato non ha avuto la forza e il coraggio di processare se stesso. Dopo 11 processi di condanna, 4 giudizi in Cassazione, apposizioni del segreto politico-militare, la serranda della legge è calata il 3 maggio 2005: tutti assolti, strage senza colpevoli, i parenti delle vittime condannati a pagare le spese di giudizio.
La verità storica e politica, a ogni modo, è chiara. Sono ben documentati, con le responsabilità della destra neofascista veneta, le complicità e i depistaggi dei servizi di sicurezza e soprattutto dell’Ufficio Affari riservati.
Peccato, bisogna dirlo con amarezza, che in questo smisurato film un po’ asettico non si ritrovino né la passione né le emozioni di quegli anni infuocati.

INTERVISTA DI GIANNI SANTUCCI A GERARDO D’AMBROSIO
MILANO — Senatore, ha visto il film Romanzo di una strage?
«Non hanno ritenuto di invitarmi all’anteprima, andrò a vederlo. Speriamo che abbiano letto bene gli atti...».
Gerardo D’Ambrosio, senatore pd, fu giudice istruttore della seconda inchiesta (per «omicidio volontario») sulla morte di Giuseppe Pinelli. Fu la sua sentenza a stabilire la verità giudiziaria: il commissario Luigi Calabresi non si trovava nella stanza della Questura quando Pinelli precipitò ed era assolutamente estraneo alla sua morte.
Quali sono le altre «verità giudiziarie» sul caso a cui si arrivò?
«Dimostrammo ad esempio che a Pinelli non era stato iniettato il "siero della verità", perché il segno che aveva sul braccio era di una flebo che gli era stata messa dopo la caduta: c’era anche una foto pubblicata dal Corriere d’informazione a dimostrarlo, fu acquisita agli atti. Con una seconda autopsia i periti chiarirono anche che Pinelli non aveva altre lesioni precedenti alla caduta, quindi non era stato picchiato. Il problema è che queste ipotesi, "siero della verità" e "colpo di karate", già circolavano e facevano parte della violentissima campagna contro Calabresi. L’inchiesta chiarì anche che la caduta di Pinelli non era compatibile né con una spinta, né con il suicidio».
Il clima di sospetto poteva essere giustificato dalle omissioni e dalle bugie dopo la morte di Pinelli?
«Una cosa fondamentale da dire è che la prima inchiesta si basò su un’istruttoria sommaria, non venne neanche acquisita la cartella clinica di Pinelli, e si arrivò a un provvedimento di archiviazione senza deposito degli atti. Inoltre, il difensore della vedova Pinelli non venne ammesso all’autopsia. Ciò non era prescritto dal codice all’epoca, ma di fronte a un caso del genere e visto il clima di odio si poteva fare uno strappo alla regola. Tutto questo alimentò senza dubbio le speculazioni e le tesi non vere che venivano scritte e ripetute. Con accertamenti da subito più approfonditi, probabilmente alcuni di quei falsi argomenti sarebbero stati "sterilizzati"».
È vero che Pinelli e Calabresi si rispettavano?
«Prima di Piazza Fontana, il gruppo Freda-Ventura aveva già fatto una serie di attentati, che in quel momento venivano addossati agli anarchici. Pinelli venne sospettato e dimostrò la sua estraneità, poi raccoglieva fondi e testimonianze per la difesa degli anarchici ingiustamente detenuti, come dimostrarono indagini successive a carico di Freda-Ventura per le altre bombe del 1969. Per questa sua attività, Pinelli conosceva Calabresi. Bisogna però dire anche un’altra verità: Pinelli e gli altri anarchici, dopo piazza Fontana, erano stati fermati e poi trattenuti illegalmente, tra l’altro senza le dovute comunicazioni alla magistratura. Arrivammo anche ad alcune incriminazioni per arresto abusivo».
Gianni Santucci