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 2012  marzo 28 Mercoledì calendario

DAL NOSTRO CORRISPONDENTE

PECHINO — Wen Jiabao ha usato la metafora delle mele, rubandola al drammaturgo George Bernard Shaw. Se io ti do una mela e tu ne dai una a me, tutt’e due resteremo con una mela, ma se ci scambiamo un’idea ce ne ritroveremo due per uno: il primo ministro cinese ha ricordato proprio ieri al suo omologo irlandese Enda Kenny la massima che aveva pronunciato durante una sua visita a Dublino, nel 2004. «E io avevo portato sia le mele sia le idee». Anche l’Italia ha fame di investimenti e dunque di mele cinesi e, a giudicare dalle parole del presidente Hu Jintao a Seul, i capitali per il nostro Paese — le mele — sono maturi.
Mario Monti, durante la tappa cinese del suo viaggio asiatico, vedrà il vertice della China Investment Corporation (la Cic), il fondo sovrano di Pechino, non ansioso — per recente ammissione del suo numero uno, Lou Jiwei — di investire in bond europei ma disponibile, casomai, a sondare aziende e progetti infrastrutturali. Il terreno è già stato dissodato. In Italia esistono 92 aziende possedute o partecipate da società cinesi. Nella stragrande maggioranza, il 92%, sono gli investitori della Repubblica popolare a esercitare il controllo, mentre in un caso su 20 italiani e cinesi sono soci alla pari e soltanto nel 3% delle situazioni prevale il partner italiano. Secondo Invitalia (l’agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa) quasi la metà delle aziende cinesi nel nostro Paese, cioè il 47%, rappresentano nuovi investimenti, mentre il 53% è costituito da acquisizioni o partecipazioni.
La distribuzione territoriale della presenza cinese sembra riflettere la mappa della vivacità industriale. Da sola la Lombardia concentra 41 aziende; seguono — secondo i dati di Invitalia-R&P, elaborati con il Politecnico di Milano — Veneto (12), Lazio e Piemonte (9 ciascuna), Emilia Romagna (8), Liguria (5), Marche (4) e altre regioni dove esiste solo un investitore dalla Repubblica popolare. Il fatturato complessivo si attesta a 2,42 miliardi, con circa 5 mila dipendenti. Passando alle stime del ministero dello Sviluppo economico, gli investimenti diretti cinesi in Italia sono scesi nel 2010 a 10 milioni di euro contro i 35 del 2009.
I marchi cinesi maggiori e più solidamente radicati sono Huawei (colosso delle tecnologie informatiche e delle telecomunicazioni), Haier (elettrodomestici), Zoomlion (macchinari), con logistica e piattaforme commerciali come settori più rappresentativi. Energia, finanza, hi-tech, infrastrutture, immobiliare e chimica sono altri degli ambiti dove la liquidità cinese può trovare sfogo, perché il raggio d’interesse dei potenziali investitori si sta allargando. Interpellato dall’agenzia Xinhua, il direttore per gli investimenti in Italia di Invitalia, Giuseppe Arcucci, spiegava agli interlocutori di Pechino che il nostro Paese «è più aperto al capitale cinese anche in settori tradizionalmente preoccupati di vedersi privati del loro know how, come le macchine utensili e la moda».
Il caso Ferretti si colloca in quest’area. All’inizio dell’anno lo Shandong Heavy Industry group-Weichai group ha annunciato di aver chiuso con un’operazione da 374 milioni di euro (196 per ripianare i debiti e 178 di investimento) l’acquisizione del maggior produttore mondiale di yacht di lusso. Ferretti è ora cinese ma non dovrebbe perdere l’aura di italianità che ne sorregge il brand.
L’Italia rientra nell’orizzonte europeo di una spinta verso l’estero fortemente voluta da una leadership di Pechino desiderosa di sostenere la crescita dei consumi interni. Se nel 2010 l’investimento cinese negli Stati Uniti è aumentato del 74%, quello nell’Unione è raddoppiato (più 102%) e il 15% delle aziende cinesi che hanno puntato ai mercati esteri per i propri investimenti ha scelto la Ue quando — secondo l’European Council on Foreign Relations — a tutto il 2009 le aziende all’estero erano oltre 13 mila. La scorsa settimana era in Italia il viceministro del Commercio, Jiang Yaoping, a riprova di un interesse che da parte italiana si vorrebbe pronto a incanalarsi verso acquisizioni e partecipazioni. Fanno gola, in prospettiva, operazioni come quella che ha portato il fondo sovrano Cic a fare suo, attraverso una sussidiaria, l’8,68% di Thames Water, società che distribuisce risorse idriche in Gran Bretagna.
Mario Monti arriverà dopo il suo collega irlandese Kenny. Ha le idee chiare e vedrà Wen Jiabao. Per intendersi su cosa serve all’Italia, e anche alla Cina, non sarà necessario parlare delle mele di George Bernard Shaw.
Marco Del Corona