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 2012  marzo 26 Lunedì calendario

SI RIACCENDE LA CORSA AL NUCLEARE CIVILE

Le prospettive del nucleare civile nel mondo sembrano tornate promettenti, benché soltanto pochi giorni fa si sia celebrato l’anniversario del terribile incidente di Fukushima, in Giappone. Solo alcuni Paesi (Germania, Svizzera e momentaneamente proprio il Giappone) hanno annunciato una moratoria nel settore. Il resto del mondo, Estremo Oriente e India in testa, ha deciso di continuare a puntare sull’atomo, tanto che i numeri relativi alle centrali sono ormai superiori a un anno fa: due impianti in più operativi (433 in totale), quattro in più in progetto (162) e cinque in più allo studio (329), secondo i dati forniti dalla World Nuclear Association al 9 marzo 2012. Morgan Stanley, poi, in un recentissimo studio, stima in 147 unità l’aumento dei reattori civili per la fine del decennio.
Non solo. I consumi mondiali di ossido di uranio (la materia prima base da cui si parte per fabbricare le barre di combustibile) sono in costante crescita: da 39.670 tonnellate nel 2006 essi dovrebbero salire quest’anno a 67.990 (+71,4%). Tanto che Jonathan Hinze, vice presidente per le Operazioni internazionali della Ux Consulting Company, una delle più grandi aziende mondiali del settore, prevedeva già lo scorso anno una domanda costantemente superiore all’offerta al più tardi entro un quindicennio.
Proprio questa rinnovata fiducia globale nell’atomo, però, sta creando più di un problema agli Stati Uniti, che rischiano di restare al freddo mentre un blizzard invernale sconvolgerà le regioni settentrionali o di dover spegnere i condizionatori proprio quando un’ondata di caldo torrido flagellerà la fascia sud del Paese. È questa infatti la prospettiva che incomberà su alcune decine di milioni di americani dal giugno del prossimo anno, quando verrà anche a mancare una parte significativa del combustibile che alimenta le centrali elettronucleari statunitensi.
La storia prende avvio da un programma ventennale poco conosciuto, ma di grande successo (vedi articolo sotto) chiamato "Megatons to Megawatts", firmato nel 1994 da Usa e Russia con lo scopo di ricavare combustibile nucleare per uso civile da 20mila testate atomiche ex sovietiche che andavano smantellate in base ai trattati Start per la riduzione degli armamenti, impedendo nel contempo che tali armi finissero in mani pericolose. La fortuna del programma - costato in tutto 12 miliardi di dollari, ampiamente recuperati con il valore delle barre prodotte - è stata però paradossalmente eccessiva, avendo creato per gli Usa una sorta di dipendenza difficile da eliminare, che però, tra poco più di un anno, finirà. E senza molte speranze di sostituzione.
Tutto questo proprio mentre gli Usa stanno diventando sempre più dipendenti dalle forniture estere: delle 19.724 tonnellate che utilizzeranno nel 2012 per soddisfare il loro fabbisogno, appena 1.660 (l’8,4%) saranno di produzione interna. In un mercato dominato dalla domanda appare dunque difficile trovare fornitori in grado di sostituire le 640 tonnellate di uranio che annualmente giungono dalla Russia.
Proprio gli Usa, nonostante un forte incremento nella produzione di energia elettrica da fonti alternative - che l’anno scorso, con l’11,7% del totale, per la prima volta ha superato l’apporto del nucleare (10,5%) -, hanno pianificano anche un forte ritorno all’atomo civile. Oltre a un impianto da 1.218 MW in costruzione in Georgia (il primo avviato dopo quasi un quarantennio), è prevista la costruzione di 11 nuove centrali, cui si affiancano richieste per un totale di 26 nuovi reattori inoltrate finora alla U.S. Nuclear Regulatory Commission (l’ente che gestisce il settore), che dovrebbero contenere gli effetti della progressiva obsolescenza del parco di 104 centrali attualmente in funzione. Questo si tradurrà in una domanda americana di ossido di uranio sempre più elevata: negli Usa si stima che, se nulla cambiasse, entro un decennio si accumulerà un deficit addirittura di 227mila tonnellate.
Sarà possibile colmarlo? In parte sì, ma occorrerà che i prezzi salgano, e di molto, per consentire, come accade per il petrolio e le altre materie prime, di mettere in produzione in forma economica giacimenti con tenore di minerale più ridotto, che sono quelli situati soprattutto in Namibia, Niger e Usa. Il mercato futuro appare in mano a un solo grande produttore: l’Australia, che, con il 31% delle riserve mondiali, sarà in grado di condizionare la produzione globale, seguito da una triade di peso equivalente, formata da Kazakhstan (12%), Canada e Russia (9% ciascuno). Washington, quindi, per poter sviluppare le proprie risorse interne (stimate in circa 200mila tonnellate), dovrà sperare che i prezzi salgano ad almeno 80-130 dollari l’oncia. Cosa certo non tanto rapida da realizzare.