Federico De Rosa, Corriere della Sera 26/03/2012, 26 marzo 2012
CATANZARO COME BANGALORE. LA CAPITALE DEI CALL CENTER
Anticipiamo un brano tratto dal libro di Federico Fubini «Noi siamo la rivoluzione» (Mondadori, pagine 189, 17,50), in uscita domani. Si tratta di un ampio reportage suddiviso in sette capitoli, tutti dedicati a persone che, nelle più diverse parti del mondo (Nord Africa, Arabia Saudita, India, Thailandia, Etiopia) cercano di cambiare la situazione della loro terra andando controcorrente. Il capitolo finale, di cui pubblichiamo uno stralcio, riguarda Catanzaro, città depressa che è divenuta la capitale italiana dei call center, e racconta il tentativo del giovane Salvatore Scalzo di rimettere in movimento un contesto immobile e incancrenito con la sua candidatura a sindaco. Allo stesso progetto di ricerca del libro cartaceo appartiene l’ebook di Fubini «La Cina siamo noi» (Mondadori), disponibile su diverse piattaforme digitali, che racconta come cambiano il lavoro, la società e la vita nel Mezzogiorno d’Italia in conseguenza della globalizzazione e della crisi mondiale. Nell’ebook è compresa anche la parte su Catanzaro del libro cartaceo, cui se ne aggiungono altre concernenti realtà in via di trasformazione del nostro Sud: per esempio Casoria (Napoli) e il gioco d’azzardo «legale». I call center di Catanzaro lavorano tutti con commesse di aziende italiane o internazionali come Telecom Italia, Tim, Vodafone, Wind, H3G, Fastweb, Sky, Enel, Poste italiane, American Express, banche o società di credito al consumo come Santander, Findomestic e editori come Rcs, l’azienda della quale io sono un dipendente.
È la delocalizzazione dei servizi all’italiana. Quando, qualche anno fa, Thomas Friedman del «New York Times» scoprì un fenomeno del genere a Bangalore, in India, scrisse un saggio di successo intitolato The World Is Flat (Il mondo è piatto). Friedman ne era entusiasta. Per fornire a basso costo i servizi immateriali del XXI secolo, qualunque cosa possa viaggiare su un cavo a fibre ottiche, ognuno cerca le zone più arretrate del proprio impero scomparso. Lì il lavoro costa meno e la distanza dal punto di consegna non significa più nulla. Le grandi aziende inglesi o americane o australiane hanno aperto i loro call center in India, dove milioni di ragazzi parlano la lingua dell’antico potere coloniale; i francesi vanno in Marocco, Mauritania o Burkina Faso; gli spagnoli in Argentina o in Messico.
Noi italiani, vista la miseria della nostra storia coloniale, andiamo in Calabria. O, come fa Vodafone, gruppo quotato a Londra e presente in 67 paesi, apriamo un call center in subappalto a Gianturco, provincia di Napoli. «The world is flat», ma anche l’Italia, nel suo piccolo, sta cercando di diventare piatta. È come se l’ex colonia noi ce la fossimo ricavata al nostro interno, nei territori in cui non più di una persona in età da lavoro su due può vantare ufficialmente un’occupazione.
Componete il numero del centralino dell’Enel a Roma e vi risponderà Catanzaro, fate il 199 di Tim e vi risponderà sempre Catanzaro, fate il 184 di Vodafone e noterete che l’accento è calabrese, e se poi ricevete una chiamata di Fastweb o di Sky che vi offre un nuovo servizio a un prezzo imbattibile, anche quella verrà molto probabilmente dalle pendici della Sila. C’è una logica: è l’area dal reddito per abitante fra i più bassi nel territorio dell’euro. Qui, per chi è sotto i trent’anni c’è sempre meno lavoro, dunque chi ne vuole deve accettarlo a qualunque condizione.
È impossibile capire Catanzaro se non si tiene conto di questa trasformazione dell’Italia nell’era del deperimento biologico e delle tecnologie, ed è impossibile capire l’Italia e l’Europa se non si capisce Catanzaro. La città non è una deviazione dalla norma; come Sidi Bouzid in Tunisia, dove Mohamed Bouazizi un giorno si è dato fuoco, è forse solo il punto di massima tensione di un tessuto più vasto o la destinazione verso la quale milioni di altri temono di essere in cammino. (...)
Come Bangalore, Catanzaro è diventata un industry town. Una città che in pochi anni ha legato il suo destino a un settore che in precedenza non esisteva. Per la prima volta nella sua storia fa qualcosa di slegato dal luogo dove si produce, se non per il fatto che nasce qui perché qui la manodopera è così a buon mercato. Per intercettare subito gli studenti e i neolaureati, i call center fioriscono a grappoli attorno all’università e ormai pesano sull’occupazione totale più dell’auto a Detroit, più della finanza a Londra, più dell’elettronica nella Silicon Valley. Per secoli era stata l’agricoltura, ma ora gli uliveti sono lasciati visibilmente incolti. Non un marchio alimentare che riesca a imporsi sul mercato italiano o internazionale, malgrado la qualità unica dei prodotti. Non uno a Catanzaro che abbia pensato di creare una facoltà di agraria, fra le mille fabbriche di diplomi che sfornano disoccupati per i call center e i loro derivati che, come in India, si stanno già sviluppando.
Gli inglesi hanno iniziato con i telefonisti a Bombay o nel Rajasthan; ma poi il governo di Londra, nella sua campagna di risparmi, ha trasferito in India, tramite email, anche l’analisi delle radiografie del National Health Service, la sanità pubblica britannica. Qualcosa di simile ora accade anche a Catanzaro: i proprietari dei call center si stanno già posizionando per l’analisi delle radiografie a distanza, il back office (buste paga, contratti di fornitura) per le grandi aziende di Roma o di Milano, le pratiche fiscali. Qualunque cosa possa viaggiare su un cavo a fibre ottiche può creare profitto, lavoro, e rivoluzionare l’economia.
Dall’unità d’Italia qui avevano funzionato solo il pubblico impiego, l’ufficio postale, la delegazione ministeriale, la Corte d’appello. «Catanzaro è una piccola Roma» si dice ancora. Una città che tiene alla sua pretesa di rispettabilità borghese, alla passeggiata sul corso, al coro in chiesa la domenica con gli abiti buoni. Ma ora anche la bolla del pubblico impiego è scoppiata. Lo Stato, minacciato dall’insolvenza, non assume più nessuno, mentre a mano a mano spinge verso la pensione più o meno anticipata i padri, le madri, gli zii e i nonni. Le piante organiche dell’amministrazione rattrappiscono. E i figli degli statali, al mattino, si siedono al tavolo dicendo «Buongiorno, questa è la Vodafone» a 5 euro lordi l’ora quando va bene. Un tavolo, un computer, un telefono, fuori dalle finestre i campi abbandonati: per la generazione che è arrivata dopo, resta in piedi il surrogato del sogno di una carriera da colletto bianco.
Federico Fubini