Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  marzo 26 Lunedì calendario

L’onore restituito al nostro esercito è anche al femminile - L’alpina, la veterana, il caporale: le nostre ragazze in prima linea impegnate in vere prove di fuoco Cinquanta morti

L’onore restituito al nostro esercito è anche al femminile - L’alpina, la veterana, il caporale: le nostre ragazze in prima linea impegnate in vere prove di fuoco Cinquanta morti. Un tributo di vite senza precedenti in 65 anni. Quel sacrificio - unito al sangue dei feri­ti, al coraggio dei nostri militari avvicenda­tisi sul fronte afghano - ha restituito onore e dignità ad un’istituzione che dopo la se­conda guerra mondiale era stata sbeffeg­giata, ignorata, trasformata in protagoni­sta di film di second’ordine. Ma a ridare di­gnità alle Forze Armate, a portare il peso del sacrificio afghano, a contribuire con il proprio sangue alla rinascita della nostra tradizione militare ci sono, per la prima volta nella storia d’Italia,le donne.La diffi­cile missione afghana le ha sospinte nel cuore della battaglia dove pallottole e trap­pole esplosive non fanno distinzioni. Il caporal maggiore Monica Graziana Contrafatto, la 31enne soldatessa di Gela colpita da una scheggia al petto, è la secon­da donna gravemente ferita in Afghani­stan. Prima di lei è toccato al caporal mag­giore degli alpini Cristina Buonacucina, saltata su una trappola esplosiva il 17 mag­gio 2010 mentre a bordo del suo Lince sale verso la base di Bala Mourghab. Quando riprende i sensi il sergente maggiore Mas­similiano Ramadù e il caporal maggiore Luigi Pascazio sono già morti. Lei non lo sa ancora. Il suo incubo in quel momento è la vista della sua gamba maciullata, della tibia uscita dalle carni, di quel piede quasi amputato. A due anni di distanza, nono­stante le cicatrici del corpo e dell’anima, combatte ancora. Combatte nelle sale di riabilitazione, lotta per tornare a cammi­nare e indossare nuovamente la divisa. Nella difficile trincea af­ghana molte altre donne sperimentano la frenesia della battaglia, la dispera­zione per la morte di amici e commilitoni caduti da­vanti ai loro occhi. Il 9 otto­bre 2010 il primo caporal maggiore Lucia Prota del 7˚ reggimentoalpinièapo-c­hedecinedimetridalLin-ce distrutto da un ordigno sucuihannoappenaperso la vita gli amici Gianmarco Manca, Marco Pedone, Se­bastiano Ville e Francesco Vannozzi. Quel giorno quella biondina minuta, classe 1983, vete­rana di tante missioni, non può neppure permettersi di piangere. L’intera colonna è sotto il fuoco dei talebani annidati sulle alture del Gulistan. Lucia tira giù il morta­io da 60 millimetri, lo posiziona a terra, punta una mitragliatrice talebana. E intan­to inghiotte la propria disperazione. «So­no a terra in mezzo al bordello della spara­toria, dei colpi, delle esplosioni, della ra­dio che urla. Davanti ho il rottame accar­tocciato, il Lince dilaniato, il medico chino su uno dei corpi. Vedo tutto, capisco tutto. Ma non ci voglio cre­dere. Stanno bene Lucia, vedrai che stanno bene ­mi ripeto - dobbiamo solo portarli via di qua. E così piango e sparo, piango e sparo. Non so quante gra­nate butto nel mortaio, quante volte colpisco la montagna. “C’è solo un fe­rito”, ripete il mio autista. È una bugia. Lo so. Basta guardare la carcassa di rot­tami, basta guardare il cor­po di Sebastiano. Ma intanto sparo e pian­go, sparo e piango. Stanno bene - mi ripe­to - dobbiamo solo portarli via di qua». Nella base di Bakwa in quel momento il capitano Monica Segat è in piedi nella sala comando. Nel 2000, a 21 anni, è stata fra le prime a guadagnarsi i gradi d’ufficiale al­l’Accademia di Modena. In mezzo all’im­boscata c’è anche suo marito, il capitano Daniele Castriota, ma lei non può pensar­ci. Mentre la radio conferma «4 morti e un ferito» lei legge l’ordine di missione. I no­mi fuggono dalla carta, assumono forma, le esplodono nello stomaco, le scavano la mente. Sono i ragazzi della sua compa­gnia. Vede il sorriso di Gianmarco Manca, insegue il volto da ragazzino di Marco Pe­done. Gira lo sguardo.Sulla mappa l’atten­de il ghigno di Francesco Vannozzi, il pisa­no. Scuote la testa. Si sforza di decifrare le immagine del Predator sul plasma, ma il video è un buco nero e lei ci vede solo la sa­goma di Sebastiano Ville. Si volta di scat­to. Un tenente al suo fianco attende ordi­ni. «È successo. Capisco. Mi scuoto. Abban­dono gli occhi sbarrati del tenente. Lancio il primo ordine che riesco a recuperare dal­la memoria degli addestramenti. Il tenen­te riprende anche lui a ripetere ordini e di­spacci. La macchina della sala comando si rimette in moto. Quello che abbiamo si­mulato decine di volte è realtà. Nel petto ho una calma gelida, inconsueta. Ci sono più di cento uomini ancora vivi e un ferito da portar via. Dobbiamo pensare solo a lo­ro. In quel momento vedo il volto di Danie­­le, di mio marito. È in fondo alla colonna, la sua voce riecheggia alla radio. Non ci so­no problemi. Tanto lo so, lui se la caverà».