Gian Micalessin, il Giornale 26/3/2012, 26 marzo 2012
L’onore restituito al nostro esercito è anche al femminile - L’alpina, la veterana, il caporale: le nostre ragazze in prima linea impegnate in vere prove di fuoco Cinquanta morti
L’onore restituito al nostro esercito è anche al femminile - L’alpina, la veterana, il caporale: le nostre ragazze in prima linea impegnate in vere prove di fuoco Cinquanta morti. Un tributo di vite senza precedenti in 65 anni. Quel sacrificio - unito al sangue dei feriti, al coraggio dei nostri militari avvicendatisi sul fronte afghano - ha restituito onore e dignità ad un’istituzione che dopo la seconda guerra mondiale era stata sbeffeggiata, ignorata, trasformata in protagonista di film di second’ordine. Ma a ridare dignità alle Forze Armate, a portare il peso del sacrificio afghano, a contribuire con il proprio sangue alla rinascita della nostra tradizione militare ci sono, per la prima volta nella storia d’Italia,le donne.La difficile missione afghana le ha sospinte nel cuore della battaglia dove pallottole e trappole esplosive non fanno distinzioni. Il caporal maggiore Monica Graziana Contrafatto, la 31enne soldatessa di Gela colpita da una scheggia al petto, è la seconda donna gravemente ferita in Afghanistan. Prima di lei è toccato al caporal maggiore degli alpini Cristina Buonacucina, saltata su una trappola esplosiva il 17 maggio 2010 mentre a bordo del suo Lince sale verso la base di Bala Mourghab. Quando riprende i sensi il sergente maggiore Massimiliano Ramadù e il caporal maggiore Luigi Pascazio sono già morti. Lei non lo sa ancora. Il suo incubo in quel momento è la vista della sua gamba maciullata, della tibia uscita dalle carni, di quel piede quasi amputato. A due anni di distanza, nonostante le cicatrici del corpo e dell’anima, combatte ancora. Combatte nelle sale di riabilitazione, lotta per tornare a camminare e indossare nuovamente la divisa. Nella difficile trincea afghana molte altre donne sperimentano la frenesia della battaglia, la disperazione per la morte di amici e commilitoni caduti davanti ai loro occhi. Il 9 ottobre 2010 il primo caporal maggiore Lucia Prota del 7˚ reggimentoalpinièapo-chedecinedimetridalLin-ce distrutto da un ordigno sucuihannoappenaperso la vita gli amici Gianmarco Manca, Marco Pedone, Sebastiano Ville e Francesco Vannozzi. Quel giorno quella biondina minuta, classe 1983, veterana di tante missioni, non può neppure permettersi di piangere. L’intera colonna è sotto il fuoco dei talebani annidati sulle alture del Gulistan. Lucia tira giù il mortaio da 60 millimetri, lo posiziona a terra, punta una mitragliatrice talebana. E intanto inghiotte la propria disperazione. «Sono a terra in mezzo al bordello della sparatoria, dei colpi, delle esplosioni, della radio che urla. Davanti ho il rottame accartocciato, il Lince dilaniato, il medico chino su uno dei corpi. Vedo tutto, capisco tutto. Ma non ci voglio credere. Stanno bene Lucia, vedrai che stanno bene mi ripeto - dobbiamo solo portarli via di qua. E così piango e sparo, piango e sparo. Non so quante granate butto nel mortaio, quante volte colpisco la montagna. “C’è solo un ferito”, ripete il mio autista. È una bugia. Lo so. Basta guardare la carcassa di rottami, basta guardare il corpo di Sebastiano. Ma intanto sparo e piango, sparo e piango. Stanno bene - mi ripeto - dobbiamo solo portarli via di qua». Nella base di Bakwa in quel momento il capitano Monica Segat è in piedi nella sala comando. Nel 2000, a 21 anni, è stata fra le prime a guadagnarsi i gradi d’ufficiale all’Accademia di Modena. In mezzo all’imboscata c’è anche suo marito, il capitano Daniele Castriota, ma lei non può pensarci. Mentre la radio conferma «4 morti e un ferito» lei legge l’ordine di missione. I nomi fuggono dalla carta, assumono forma, le esplodono nello stomaco, le scavano la mente. Sono i ragazzi della sua compagnia. Vede il sorriso di Gianmarco Manca, insegue il volto da ragazzino di Marco Pedone. Gira lo sguardo.Sulla mappa l’attende il ghigno di Francesco Vannozzi, il pisano. Scuote la testa. Si sforza di decifrare le immagine del Predator sul plasma, ma il video è un buco nero e lei ci vede solo la sagoma di Sebastiano Ville. Si volta di scatto. Un tenente al suo fianco attende ordini. «È successo. Capisco. Mi scuoto. Abbandono gli occhi sbarrati del tenente. Lancio il primo ordine che riesco a recuperare dalla memoria degli addestramenti. Il tenente riprende anche lui a ripetere ordini e dispacci. La macchina della sala comando si rimette in moto. Quello che abbiamo simulato decine di volte è realtà. Nel petto ho una calma gelida, inconsueta. Ci sono più di cento uomini ancora vivi e un ferito da portar via. Dobbiamo pensare solo a loro. In quel momento vedo il volto di Daniele, di mio marito. È in fondo alla colonna, la sua voce riecheggia alla radio. Non ci sono problemi. Tanto lo so, lui se la caverà».