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 2012  marzo 26 Lunedì calendario

Nell’inferno di Potosí la miniera d’argento degli schiavi bambini - María è una «cholita», la tipica donna andina con gonna larga, cappellone di paglia e neonato avvolto sulla schiena

Nell’inferno di Potosí la miniera d’argento degli schiavi bambini - María è una «cholita», la tipica donna andina con gonna larga, cappellone di paglia e neonato avvolto sulla schiena. Lavora come guardiana in una delle centinaia di miniere della zona e guadagna 500 bolivianos al mese, una miseria, appena 55 euro. La sua povertà fa da contrappunto al paesaggio circostante. Le numerose miniere del vicino Cerro Rico, che in italiano sarebbe la «montagna ricca», hanno prodotto nei secoli oro e argento in quantità eccezionali facendo di Potosí, a partire dal 1546 - anno della sua fondazione come città mineraria - una delle terre promesse di ogni epoca, la zecca dell’impero spagnolo dei conquistadores se è vero che proprio qui, al Palazzo della Moneta, si coniavano le monete per tutta l’America Latina. Oggi, di questo passato coloniale e sfarzoso non resta più nulla. E per quanto l’Unesco l’abbia eletta Patrimonio dell’Umanità, basta fare un giro sulla montagna che domina Potosí - il Cerro Rico appunto - per vedere come l’estrazione mineraria abbia trasformato il luogo in un paesaggio lunare dove nel fango e sotto la pioggia battente, con temperature che arrivano anche a -10˚, centinaia di ragazzini si guadagnano da vivere sfidando ogni giorno quel mostro sotterraneo che è la miniera. «Ma noi abbiamo il tio che ci protegge», mi spiega convinto Juan. Il «tio» altri non è che la statua di un diavolo che, secondo la perfida invenzione dei colonizzatori spagnoli che così tranquillizzavano la loro preziosa manodopera, proteggerebbe la miniera. Ma Juan ha appena 12 anni e nonostante la vita durissima cui è sottoposto ha ancora addosso l’ingenuità dei ragazzini della sua età. Così racconta la sua vita: «Lavoro 8-10 ore al giorno. Non è facile, perché fa freddo e ogni volta si rischia di morire, soprattutto per il gas o quando i grandi, per accelerare l’estrazione, fanno esplodere la dinamite». Dal quartiere di San Cristobal, la zona dei minatori dove dormo in una stanza senza riscaldamento e che la notte si trasforma in ghiacciaia, il letto trema quando le cariche vengono fatte esplodere. All’alba, la sera, a volte anche di notte. Sembra un terremoto ma è solo la dinamite che ragazzini come Juan fanno esplodere a ogni ora nella «pancia» del Cerro Rico. Zinco, stagno, rame, e ancora quel poco di argento che rimane, questo si trova a Potosí. I bambini minatori non pensano ai pericoli, l’importante è portare i soldi a casa, spesso non hanno il padre ma hanno tanti fratelli e due mani in più che lavorano sembrano sempre una manna dal cielo. Ma i rischi sono davvero alti, sovente letali. «Ogni giorno qui muore qualcuno» spiega Nico, sino a tre anni fa minatore, oggi volontario dell’associazione umanitaria «Voces Libres», Voci libere in italiano, fondata da una cantante lirica svizzera, Marianne Sebastien, e diventata un punto di riferimento per i bambini e le famiglie della montagna. Silicosi, febbri tifoidee, Tbc, perfino il colera: si rischia davvero tanto a Potosí, dove la speranza di vita per chi lavora in miniera è di appena 40 anni. Eppure se un ragazzino guadagna 4 euro al giorno e un adulto il doppio, c’è ancora chi fa i soldi con il Cerro Rico. Sono quei pochi che hanno creato cooperative e che, invece di lavorare per conto terzi, si sono messi in proprio, e portano a casa anche 15 mila dollari al mese. Ma la maggior parte annega ogni giorno nella miseria più nera e muore ogni giorno, ragazzini compresi. Le donne, che spesso non parlano lo spagnolo ma solo il quechua, sono quasi tutte analfabete, nonostante il presidente Evo Morales un paio di anni fa avesse annunciato al mondo che tutti in Bolivia sapevano leggere e scrivere. Una bugia clamorosa. I bambini, se vanno a scuola al mattino, poi debbono lavorare in miniera al pomeriggio, o viceversa. I loro padri, quando ci sono, tornano a casa ubriachi e violenti. «Abbiamo dato borse di studio a questi ragazzini perché possano lasciare la miniera», spiega Mercedes Cortes, una delle coordinatrici di «Voces Libres». Il progetto è agli inizi ma sta funzionando anche se coinvolge solo una parte dei circa 5 mila minori che lavorano a Potosí. Oltre la metà in miniera, almeno duemila nel resto della città. Come Sonia e Giovana, 13 e 14 anni. Di mestiere anche loro scavano come Juan, ma al cimitero. La metà delle fosse degli abitanti più poveri di Potosí, infatti, le hanno scavate loro, a colpi di pala e in cambio di spiccioli e di un tetto dove dormire. Sono orgogliose di ciò che fanno e, assieme ad altre centinaia di ragazzini comunque costretti a lavorare per sopravvivere, da qualche mese si sono riunite in un sindacato tutto loro, l’Unatsbo, che si batte per salari migliori e un’assistenza medica adeguata. Si riuniscono ogni sabato in centro a Potosí, dove hanno dato vita a un coordinamento nazionale. La Bolivia, infatti, non è solo il Paese più povero dell’America Latina il 60% della popolazione vive in povertà e il 20% in miseria - ma è anche quello dove il lavoro minorile è il più diffuso. I bambini minatori di Potosí, Sonia e Giovana, i tanti minivenditori di giornali, attraverso il loro sindacato aiutano adesso anche i loro coetanei costretti a turni massacranti nei mercati generali di Santa Cruz o di La Paz. «Siamo tutti uguali - conclude Juan, entrato anche lui la settimana scorsa nell’Unatsbo - e abbiamo diritto tutti a sperare in una vita migliore». Sognarla no. Nel deserto di melma rossa di Potosí non c’è proprio posto per i sogni.