Moises Naim, la Repubblica 27/3/2012, 27 marzo 2012
I soldi e il Pil non danno la felicità. A sostenerlo, da un po’ di tempo, sono in diversi. E non stiamo parlando di qualche teorico anticapitalista o degli alfieri della decrescita, ma degli esponenti del filone, giustappunto, dell’«economia della felicità»
I soldi e il Pil non danno la felicità. A sostenerlo, da un po’ di tempo, sono in diversi. E non stiamo parlando di qualche teorico anticapitalista o degli alfieri della decrescita, ma degli esponenti del filone, giustappunto, dell’«economia della felicità». E di figure come Martha Craven Nussbaum, la celebre filosofa statunitense che insegna Law and Ethics all’Università di Chicago, una delle protagoniste della cultura progressista e liberal internazionale, interprete originale - per usare una sua espressione, che rimanda agli esordi come antichista - di una «concezione aristotelica della socialdemocrazia». Il suo ultimo libro è infatti dedicato al Creare capacità (il Mulino, pp. 216, € 15), con la finalità, come recita il sottotitolo, e ci racconta in questa intervista, di «liberarsi dalla dittatura del Pil». Professoressa Nussbaum, come vanno cambiati i criteri di misura del Pil? «Io non dico di smettere di misurarlo, ma il Pil pro capite non costituisce una rilevazione adeguata del grado di sviluppo. Per cominciare, trascura la distribuzione; e infatti può assegnare valori elevati a nazioni che, al loro interno, presentano diseguaglianze allarmanti. In secondo luogo, non è un buon misuratore di molti dei fattori differenti che fanno avanzare il processo di sviluppo. Sanità e educazione non sono ben correlate al Pil; e il successo della Cina ha mostrato al mondo che anche la libertà politica e religiosa ha ben poco a che fare con questo indicatore. Lo “Human Development approach” (altrimenti conosciuto come “Capabilities approach”) si basa, invece, su quello che i componenti di una popolazione sono veramente capaci di fare e di essere; e, dunque, su quali opportunità dispongono realmente in ambiti come la longevità, la salute, l’educazione, la facoltà per le donne di proteggere la propria integrità corporea, la possibilità per i lavoratori di godere di relazioni di pari opportunità e di non discriminazione e, naturalmente, le libertà politiche e religiose. L’idea è che ciascuno di questi fattori deve essere valutato separatamente, e che tutti si rivelano significativi per poter contare anche su un minimo di giustizia sociale. Il mio paradigma presenta una stretta relazione con la legge costituzionale: una buona costituzione attribuisce a tutti i cittadini diritti fondamentali in questi e altri settori, e il processo politico deve trovare le strade per dare attuazione a tali diritti». Quali «buone pratiche» esistono e vanno nella direzione da lei indicata? «La prima da ricordare è l’esistenza degli Human Development Reports del Development Programme delle Nazioni Unite (Undp), e cioè i rapporti, pubblicati a partire dal 1990, che raccolgono dati nei campi al centro del nuovo paradigma; ora imitati dagli Human Development Reports a livello di quasi ogni singola nazione. Negli ultimi dieci anni abbiamo anche assistito alla crescita e al rafforzamento della Human Development and Capability Association, un’associazione internazionale di cui Amartya Sen e io siamo i presidenti fondatori, e della quale fanno parte circa un migliaio di membri di 80 Paesi diversi. Voglio poi menzionare la Banca mondiale che per alcuni anni si è rivelata sempre più ricettiva nei confronti di queste nostre idee. Il presidente francese Sarkozy ha fatto stilare un eccellente rapporto sulla misurazione della qualità della vita, nominando a capo della commissione che l’ha elaborato lo stesso Sen, Joseph Stiglitz e Jean-Paul Fitoussi. Quest’anno ho poi incontrato il Parlamento tedesco che sta producendo un rapporto analogo, e si rivela fortemente interessato all’approccio fondato sulle “capacità” (ovvero le condizioni per poter sviluppare appieno le proprie abilità in un contesto che permetta effettivamente di utilizzarle). «Ma le cose migliori stanno accadendo in India, dove il governo manifesta una grande attenzione al tema: il capo dei consiglieri economici del primo ministro Manmohan Singh è Kaushik Basu, che al momento della sua nomina era presidente della Human Development and Capability Association, mentre il capo dei consiglieri economici di Sonia Gandhi è Jean Dreze, coautore di Sen. E un’altra nostra collaboratrice, Indira Jaising, una formidabile avvocata impegnata per i diritti delle donne, è stata nominata Vice-Procuratore generale». In che modo le istituzioni nazionali possono migliorare le capacità dei loro cittadini? «Le “capacità interne”, che consistono in competenze sviluppate e non innate, sono prodotte dal sistema nazionale di educazione, come pure dall’interesse verso la salute e la sicurezza dell’infanzia. E molto importanti sono anche le leggi contro la violenza domestica. L’educazione dovrebbe sviluppare non soltanto competenze utili sotto il profilo economico, ma anche abilità come il pensiero critico, la capacità di immedesimarsi nella situazione degli altri, la comprensione dell’economia globale e della storia del mondo. E poi ci sono quelle che io chiamo “capacità combinate” e sono più che competenze: vale a dire opportunità reali che esistono esclusivamente quando il governo e il sistema legale di una nazione le rendono c o n c r e t a m e n t e possibili e permettono effettivamente agli individui di scegliere come agire. Mi sto riferendo alle occasioni di impiego, alle leggi che tutelano i lavoratori di fronte alla discriminazione e allo sfruttamento, alle norme che salvaguardano la salute e la sicurezza delle donne, alla protezione delle libertà religiose e politiche, alle disposizioni che difendono la qualità ambientale. Nel caso di ciascuna di queste fondamentali capacità, naturalmente, non è sufficiente fare buone leggi, ma è necessario anche farle rispettare». Serve anche il pensiero filosofico per cambiare il modello tradizionale di Pil? «L’approccio della capacità è scaturito dalla collaborazione tra la filosofia e l’economia. L’economia era tradizionalmente una parte della filosofia: Adam Smith, John Maynard Keynes e altri grandi economisti del passato erano anche filosofi. Mentre oggi Sen rappresenta di fatto il solo economista eminente che è anche un filosofo di primo piano. Dobbiamo, quindi, fare nuovamente affidamento sulla cooperazione tra le due discipline. I filosofi sono necessari per riflettere sulle questioni della giustizia sociale e possono contribuire mediante argomentazioni normative complesse, mentre gli economisti possono fornire il know-how tecnico per arrivare a realizzare gli obiettivi. Proprio per questo abbiamo fondato la Human Development and Capability Association».