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 2012  marzo 27 Martedì calendario

MILANO —

Sarà muta e scatenata. Senza parole ma pronta a gridare con il linguaggio esplicito del corpo la sua furia, la sua passione. Sarà una scena popolata di bianchi putti barocchi e cavalli neri, di porte mobili issate a vista e tarantelle guerriere, di cascate di candidi veli da sposa e il fiume rosso di una sciarpa, lunga fino a 30 metri, pegno d’amore e incubo di morte. «Ma anche vessillo infuocato di una rivolta popolare, quella guidata a Napoli nel 1647 da Masaniello contro gli occupanti spagnoli» avverte Emma Dante, regista siciliana impegnata all’Opèra Comique di Parigi nell’allestimento de La Muette de Portici, musica di Daniel Auber, debutto il 5 aprile, Patrick Davin sul podio dell’Orchestra e Coro del Théatre Royal de la Monnaie di Bruxelles, che coproduce lo spettacolo che però non potrà essere rappresentato in Belgio.
Nonostante la trama da feuilleton — una popolana sedotta e incarcerata, un turpe tiranno, un pescatore che aizza la ribellione ma poi finisce pazzo — l’opera è infatti segnata da uno scomodo destino eversivo che arriva fino a oggi. Nel 1828, alla prima di Parigi, l’aria «Amour sacré de la patrie» divenne la nuova Marsigliese da cantare di lì a poco per la Rivoluzione di Luglio che cacciò Carlo X. Nel 1830 in Belgio dette il via ai moti insurrezionali contro il dominio olandese. E ancora adesso, causa le tensioni tra valloni e fiamminghi, non è considerato opportuno portarla in scena. Così La Monnaie la finanzia, ma preferisce che la ribalta sia lontana, a Parigi. «Un’opera strana, traboccante di mille ardori — sostiene Dante —. Già il fatto che Fenella, la protagonista (l’attrice-danzatrice Elena Borgoni) sia muta, che non possa cantare ma solo aprir bocca senza far uscire suono, la rende speciale… Quanto alla sua carica rivoluzionaria, è innegabile». Difficile non ascoltarne gli echi. «Il richiamo ai nostri tempi ci sarà, forte e chiaro — promette —. Ci sarà la denuncia esplicita di un potere che opprime, espropria l’anima, rende folle anche chi prova a cambiarlo. Ai colonizzatori spagnoli di allora, si è sostituito oggi un governo becero e ottuso, che non capisce la bellezza e la cultura del nostro Paese, che ne soffoca i talenti. D’altra parte c’è anche un popolo che non riesce a essere solidale, pronto a tradire. E un ribelle che, appena lo incoronano re, perde la testa. E non per metafora». Quanto alla povera Fanella, Emma la sottrae al previsto suicidio nel cratere del Vesuvio per rinchiuderla in una teca. «Diventerà la martire dei poveri, intrappolata in una cappella votiva, avvolta in quella sciarpa rossa ormai ridotta a segno di una rivolta imbalsamata».
Come per la Carmen alla Scala del 2009, anche per questa seconda prova lirica Emma si è portata appresso il suo gruppo di fidati collaboratori. Dallo scenografo Carmine Maringola alla costumista Vanessa Sannino, da vari tecnici e una decina di attori-mimi, in grado di evocare quella teatralità e fisicità del Sud che è la cifra stilistica della regista. Rispetto all’esperienza scaligera, a Parigi tutto le sembra più ridimensionato. «Qui, tra cantanti, coristi e danzatori, non ci saranno più di 60 persone. Alla Scala erano oltre 200. Il palcoscenico dell’Opéra Comique è molto più piccolo e soprattutto non c’è quell’attesa un po’ isterica del 7 dicembre milanese. Allora non me ne sono resa conto, ero totalmente incosciente, pensavo fossero pazzi gli altri. Oggi probabilmente avrei un’ansia ben maggiore rispetto quella prima esperienza meravigliosa, pur se segnata da qualche ingenuità. Oggi forse, ripensandoci, toglierei alcuni eccessi dalla mia Carmen». Magari gli stessi che allora le costarono i fischi del pubblico più tradizionale. «Non essere compresa da tutti fa parte del mio karma di artista… — sospira — Ma proprio questo mi dà la forza di continuare nella mia ricerca espressiva».
A giugno si cimenterà nel primo film, Via Castellana Bandiera, tratto dal suo omonimo romanzo (Rizzoli). Storia dell’incontro-scontro tra due donne al volante, un’anziana albanese e una giovane milanese (Alba Rohrwacher). «Gireremo a Palermo. Produzione italo-svizzera, l’indipendente Vivo Film e Eurimages. Niente invece dalla Sicilia. Per me, il set più difficile. Forse perché sono considerata scomoda, forse perché dico sempre quello che penso e non faccio la questua con nessuno. Fatto sta che non ho mai avuto aiuti di sorta da alcuna istituzione».
L’ultima conferma che nessuno è profeta in patria, è la Carmen messa in cartellone lo scorso novembre dal Teatro Massimo di Palermo. «Avrebbero potuto scegliere la mia, quella della Scala, che tanti consensi ha avuto dalla critica internazionale. Invece hanno preferito un’altra, importata dalla Spagna. Ci sono rimasta male… Un’ulteriore riprova della volontà delle realtà locali di voler tenere le distanze dal mio lavoro».
Giuseppina Manin