Francesco Daveri, Corriere della Sera 27/3/2012, 27 marzo 2012
Mario Monti è in Asia, pur nel mezzo di accese polemiche domestiche, in un tour di sette giorni. Chissà se altri capi di governo avrebbero tenuto fede a una scelta del genere
Mario Monti è in Asia, pur nel mezzo di accese polemiche domestiche, in un tour di sette giorni. Chissà se altri capi di governo avrebbero tenuto fede a una scelta del genere. Una scelta però comprensibile. All’Expo di Shanghai 2010 il padiglione italiano fu visitato da più di 7 milioni di persone. Ci furono 23 richieste di acquisizione delle sole strutture, da parte di altrettante istituzioni cinesi e municipalità, da Pechino a Hong Kong. I cinesi avrebbero voluto che la vetrina del Made in Italy diventasse permanente. Ma quel successo all’Expo 2010 si manifesta anche nelle statistiche del commercio estero tra Italia e Asia emergente? Purtroppo la nostra presenza nell’area è come minimo poco rappresentata nelle cifre dell’export nazionale. In Cina nel 2011 abbiamo venduto prodotti e servizi per 10 miliardi di euro, con un aumento del 16 per cento rispetto al loro valore del 2010. Ma, per ogni euro di beni esportati, l’Italia ne importa quasi tre da Pechino: vendiamo per 10 miliardi compriamo per 30. E non è solo una questione di concorrenza sleale dei cinesi. I dati sono gli stessi, almeno dal punto di vista qualitativo, anche per gli scambi commerciali con il resto dell’Asia emergente. L’Italia ha un forte deficit nei conti con l’estero nei confronti dell’India, della Corea del Sud, e dei dieci Paesi dell’Asean, l’associazione che raccoglie 660 milioni di indonesiani, filippini, vietnamiti e via dicendo, in un’area di libero scambio oggi povera ma che sta crescendo rapidamente. L’Asia è lontana dall’Italia, si potrebbe dire: è più facile e meno costoso, soprattutto per le nostre piccole aziende, vendere in Europa che nei lontani Paesi asiatici. La sola Spagna assorbe oggi un volume più grande di esportazioni italiane di Cina, India e Paesi Asean messi insieme. Ma Madrid ha un’economia oggi stagnante e con dubbie prospettive di crescita futura. Si dirà: i costi del trasporto e delle comunicazioni, così come le reti logistiche, non sono un’opinione e pesano certamente nei bilanci aziendali. E una rete di vendita che funziona a casa non è facilmente replicabile lontano, come hanno imparato a loro spese anche colossi della distribuzione come l’americana Wal Mart e la francese Carrefour. Ma la logistica e il trasporto pesano anche nei bilanci delle aziende tedesche che, malgrado tutto, riescono a piazzare in Cina il 5 per cento delle loro esportazioni e non solo il 3 come fa il Made in Italy. E se l’Asia è lontana, ha almeno la demografia dalla sua parte. Se poi guardiamo alla quantità e alla qualità degli investimenti già oggi provenienti dall’Asia emergente, si vede ancora più chiaramente che alcuni Paesi stanno entrando più di altri nel cuore degli uomini di affari asiatici. Secondo l’agenzia tedesca che promuove il commercio e l’investimento estero, nel solo 2011 capitali cinesi hanno finanziato o cofinanziato 158 progetti di investimento in Germania. Un quinto di questi progetti riguarda l’ingegneria meccanica e il settore automotive, un decimo la green economy e le tecnologie rinnovabili. Per numero i progetti cinesi sono uguali ai progetti finanziati da francesi e americani in Germania nello stesso anno. Come dire che il peso della Cina è già oggi grande in Germania, ma i tedeschi con i cinesi fanno joint venture. In Italia, invece, i cinesi spesso si presentano con valigie di contanti pronti a rilevare massicciamente piccoli esercizi del commercio al dettaglio e imprese artigiane messe in difficoltà dalla crisi e dalla globalizzazione. E questo accade nelle province lombarde come in quelle toscane. Per arrivare a costruire relazioni stabili si deve mostrare anche attenzione. Da qui anche la lunghezza della missione italiana in Cina. Non per vendere qualcosa quanto per affermare la propria disponibilità e affidabilità. Il premier vorrà portare con sé l’immagine di un’Italia dello spread tornato a livelli sostenibili, del decreto sulla concorrenza su cui è stata appena posta la fiducia e — anche — del mercato del lavoro in via di riforma. Con la speranza di aprire mercati, promuovere joint venture e attrarre investimenti asiatici rilevanti quanto più strutturati. A lui spetterà il compito tutt’altro che facile di essere convincente sul fatto che qualcosa in Italia è cambiato. E che la tardiva nostra attenzione di oggi per i Paesi emergenti asiatici non è strumentale ma fondante di un Paese finalmente aperto e attento a quello che accade fuori dai confini nazionali ed europei.