Paolo Mereghetti, Corriere della Sera 27/3/2012, 27 marzo 2012
Per una volta il titolo è davvero essenziale: Romanzo di una strage non confonde le carte in tavola, non depista
Per una volta il titolo è davvero essenziale: Romanzo di una strage non confonde le carte in tavola, non depista. Quello che successe in Italia tra il 1969 e il 1972, dall’uccisione dell’agente Antonio Annarumma (19 novembre 1969) a quella del commissario Luigi Calabresi (17 maggio 1972), è veramente «materia romanzesca» tanto è complessa e ramificata. E gli sceneggiatori del film (il regista Marco Tullio Giordana insieme a Sandro Petraglia e Stefano Rulli) l’hanno raccontata come fosse davvero un romanzo, con i suoi protagonisti e i suoi comprimari, i buoni e i cattivi, i colpi di scena e i momenti riflessivi. Dividendo il tutto in capitoli che aiutano lo spettatore a orientarsi tra i fatti e le supposizioni, tra la «realtà» e la «fantasia». E di questo dovrebbe essere chiamato a parlare il critico, di come la storia di quegli anni è diventata film, ha trovato una forma cinematografica. Naturalmente il compito non è così facile, perché quella materia brucia ancora gli animi (come dimostra l’intervista che Aldo Cazzullo ha fatto a Mario Calabresi, figlio del commissario assassinato, e pubblicata sul Corriere di domenica 25) e perché le tante verità scoperte faticano ancora a stare tutte insieme, danno l’impressione — almeno a chi non si accontenta delle parole d’ordine e degli slogan — di un puzzle a cui manchino ancora dei pezzi. O per lo meno dei riflettori capaci di far luce in tanti angoli. Per questo, viene da supporre, Giordana ha scelto la forma del «romanzo»: per mettere gli esseri umani al centro del film, le persone prima dei fatti. E lasciare i teoremi a chi se ne diletta (almeno fino a un certo punto). I due pilastri su cui regge il film sono evidentemente Giuseppe Pinelli (Pierfrancesco Favino) e Luigi Calabresi (Valerio Mastandrea), l’anarchico e il commissario, divisi dalle idee politiche ma uniti da un certo reciproco rispetto e dalla sensazione (si capisce dal film) di avere a che fare con ambienti meno limpidi e corretti di quel che sono loro stessi. I circoli anarchici danno l’impressione di ospitare più infiltrati e doppiogiochisti che autentici militanti e la questura di Milano non è abitata solo da galantuomini. E per fortuna, non dimentica di sottolineare il film, accanto a Pinelli e Calabresi ci sono due donne diverse per estrazione sociale ma simili per forza d’animo e amore familiare, Licia (Michela Cescon) e Gemma (Laura Chiatti). Intorno a questi due personaggi prendono forma pian piano i fatti e si delineano i comprimari: l’esplosione in Piazza Fontana, alla Banca dell’Agricoltura, le indagini subito orientate verso i circoli anarchici, le interferenze romane, i tentennamenti del potere politico, i servizi deviati, la scoperta della «pista veneta», insabbiamenti, depistaggi fino alla campagna di Lotta Continua contro Calabresi e al suo assassinio. Tre anni che hanno lasciato sull’Italia un senso di sgomento e di impotenza, coerente prodromo a quelli che sarebbero diventati gli «anni di piombo». Questa materia, il film di Giordana si sforza di metterla in ordine e di «spiegarla», organizzandola in capitoletti («Autunno caldo», «Gli innocenti», «L’indagine parallela» e così via fino a «Dire la verità», «Esplosivo» e «Alta tensione») per aiutarne la comprensione. Per farlo si serve anche di un cast eccellente, che pur inseguendo la via obbligata della mimesi non cade mai nella macchietta o nel cabaret e sa restituire — penso ai due protagonisti ma anche al Moro di Gifuni, al Saragat di Antonutti, al questore Guida di Solli, al Ventura di Fasolo — la credibilità e lo spessore della cronaca storia. Correndo però un rischio: quello di razionalizzare troppo i fatti, di «semplificarli» per renderli intelleggibili e cancellare così l’atmosfera di angoscia e di tensione dell’Italia di quegli anni. Alla fine ti sembra che manchi la complessità del reale, che tutto sia fin troppo semplice e chiaro e che per chiudere la storia di quegli anni il film finisca per cadere nella trappola che aveva cercato di evitare per due ore: quella delle forze oscure. Dopo aver scelto di ricapitolare i fatti senza ricostruire i momenti più controversi per evitare la fantascienza (chi ha messo materialmente la bomba? O le bombe? Come è caduto Pinelli dalla finestra del quarto piano?), il film non sa rinunciare a mettere in bocca al questore degli Affari Riservati D’Amato (Giorgio Colangeli) il più facile e scontato dei discorsi «complottisti». Forse è la spiegazione più vera (e tra l’altro è quella che apre inquietanti scenari sulla morte di Calabresi, gli stessi a cui è arrivato Paolo Cucchiarelli nella sua monumentale inchiesta Il segreto di Piazza Fontana, edizione Ponte alle Grazie) ma messa così in coda dà l’impressione di una piccola astuzia narrativa che stona col resto del film.