Enrico Marro, Corriere della Sera 27/3/2012, 27 marzo 2012
ROMA —
Un anziano dirigente della Cgil, avviandosi una settimana fa alla riunione del direttivo chiamata a formalizzare il no alla riforma del mercato del lavoro e la proclamazione degli scioperi, confessava: «Il problema della Cgil è che, sul momento, magari può avere anche mille ragioni per opporsi alle riforme, ma in realtà, col senno di poi, è spesso in ritardo». È stato così sulla politica dei redditi, sull’abolizione della scala mobile e la storia pare ripetersi anche sui licenziamenti. Basti pensare che a difesa dell’articolo 18 la Cgil di Sergio Cofferati svolse il 23 marzo 2002 l’oceanica manifestazione del Circo Massimo, la più grande della sua storia, contro una riforma, quella proposta allora dal governo Berlusconi, sperimentale (per 4 anni) e limitata ad alcuni casi. Oppure, per arrivare ai nostri giorni, la Cgil, insieme con gli altri sindacati (e con la complicità della Confindustria) ha bloccato l’applicazione dell’articolo 8 della manovra dello scorso Ferragosto che autorizzava aziende e sindacati a stipulare accordi riguardanti anche le conseguenze del licenziamento (tranne quello discriminatorio) in deroga all’articolo 18. Una soluzione, anche questa, leggera rispetto al disegno di legge che ora Monti si appresta a presentare in Parlamento. Ma la prova più evidente del ritardo della Cgil e più in generale di tutto il sindacato sta in un documento del Cnel, il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, risalente al 1985.
Il 4 giugno di quell’anno il parlamentino delle parti sociali approvò un documento preparato dalla commissione Lavoro, della quale facevano parte figure storiche del sindacato come Piero Boni (Cgil), che era presidente della stessa commissione, Giorgio Benvenuto (Uil), Luciano Lama (Cgil) e Danilo Beretta (Cisl). E c’era pure Vittorio Merloni, presidente della Confindustria dal 1980 al 1984. Il documento, al quale in un primo tempo aveva lavorato come relatore Gino Giugni (il giuslavorista padre dello Statuto dei lavoratori del 1970 che contiene l’articolo 18), poi dimessosi quando venne eletto al Senato per il Psi, addebitava, già allora, all’articolo 18 «assurde disparità di trattamento», perché «contrappone un’area ristretta di lavoratori iperprotetti a un’area molto più vasta di lavoratori privi di qualunque protezione», quelli delle aziende fino a 15 dipendenti. E concludeva: «L’esperienza applicativa dell’articolo 18 dello Statuto non suggerisce un giudizio positivo sull’istituto della reintegrazione, che nei termini generali in cui è previsto nel nostro diritto non trova riscontro in alcun altro ordinamento».
La commissione proponeva quindi, guardando anche allora al modello tedesco, di limitare il diritto al reintegro ai soli licenziamenti discriminatori come era previsto (si spiega nel documento) nel testo originario dello Statuto presentato dal ministro del Lavoro Giacomo Brodolini, poi modificato in Parlamento. Per gli altri licenziamenti si suggeriva invece la riassunzione o l’indennizzo a scelta del datore di lavoro. Tutte queste regole il Cnel le proponeva però per le aziende con più di 5 dipendenti, secondo l’allora regola vigente in Germania (questa soglia è poi stata alzata a 10).
Lo schema di relazione fu «approvato» «dopo un ampio e approfondito dibattito» in commissione il 3 aprile 1985, è scritto nella premessa del documento pubblicato in seguito dal Cnel. Poiché non si specifica altro se ne deduce che passò senza voti contrari, spiegano al consiglio nazionale. In Aula, invece, fu approvata «a maggioranza» il 4 giugno 1985. Non erano presenti né Lama né Merloni, come risulta dal verbale di seduta di quel giorno. I voti dei presenti non sono annotati. Ma si sa che i sindacalisti votarono a favore e la Confindustria contro, perché voleva soluzioni più severe. Erano in anticipo sui tempi. Al sindacato, in particolare alla Cgil, non sono invece bastati 27 anni per convincersi che l’articolo 18 andava riscritto.
Enrico Marro