Adriano Sofri, la Repubblica 25/3/2012, 25 marzo 2012
Un rendez-vous all´Holiday Inn – Vent´anni dopo»: titolo classico. C´è un po´ di fretta, perché siamo ai vent´anni dopo l´inizio di guerra e assedio
Un rendez-vous all´Holiday Inn – Vent´anni dopo»: titolo classico. C´è un po´ di fretta, perché siamo ai vent´anni dopo l´inizio di guerra e assedio. Assedio lunghissimo: bisognerà aspettare tre anni per arrivare ai vent´anni dalla fine. Festeggiare l´anniversario di una guerra che comincia non si può. Lo si commemorerà, badando a non strafare. In Rete si trova ("Sarajevo Reunion") l´invito a un incontro fra gli "internazionali" dei media di allora: giornalisti, dentisti («almeno uno ce n´era»), cameramen, produttori, tecnici del suono e del satellite… Gli organizzatori tengono un tono fra il brillante e il composto. Prescrivono, a piacere, lo smoking o il giubbotto antiproiettile. Luogo dell´incontro, l´Holiday Inn, e già ricomincia la vecchia vertenza fra chi amava l´albergo crivellato dalle granate e chi lo detestava come un acquario per giornalisti, preferendo una comune casa privata, crivellata anche lei. CI SARÀ - «per la prima volta dopo allora» - un concerto di Vedran Smajlovic, il violoncellista del Quartetto d´archi di Sarajevo che suonò per 22 giorni nelle strade infilate dai cecchini l´Adagio cosiddetto di Albinoni: 22 concerti per 22 ammazzati in una fila per il pane. Donne, uomini e tanti bambini: bersaglio prediletto, allora e sempre, di guerre pubbliche e private. Smajlovic aveva trentacinque anni, dunque ne ha cinquantacinque, sarà più facile alle lacrime, ora. Raccontarono che, mentre suonava col suo frac in mezzo alle rovine della Biblioteca moresca e le telecamere lo riprendevano, piangeva e si asciugava le lacrime, finché quelli lo avvertirono che poteva smettere, perché lo avevano ripreso abbastanza: pensavano che piangesse per loro. Questione delicata, chi fa piangere chi. Tutti hanno vent´anni di più, i sopravvissuti. Molti, che riuscirono ad andarsene per scampare all´assedio e poi sono tornati, conservano un sottofondo di reciproca distanza da chi scelse di restare, o non poté fare altro. Del resto, anche fuori non era così facile, e in quel paradiso dell´umor nero che fu Sarajevo, correva la storiella dei due che si incontrano proprio a metà del famoso tunnel scavato a mano sotto l´aeroporto, uno sta scappando dalla città assediata l´altro sta rientrando, e tutti due si dicono all´unisono: «Ma dove cazzo vai?». Man mano che gli anni passavano, e il ricordo della prostrazione sbiadiva, i rimasti di Sarajevo si sentivano estranei alla nuova città e alla vita che riprendeva, come si dice, i suoi diritti, e provavano una storta nostalgia per quella lunghissima stagione d´inferno in cui però le cose erano diventate essenziali e fra le persone c´era una disperata fratellanza. Perfino questo può succedere, dopo che la guerra ha fatto rimpiangere col cuore spezzato il mondo di ieri - «Com´era bella Sarajevo! Non puoi capire come fosse dolce la vita a Sarajevo!» - una pace che fa rimpiangere, sia pure per modo di dire, le strade del tempo di guerra senza il traffico d´auto e i traffici criminali... E poi ci sono i ragazzi, quelli che non erano nati. Chissà come si racconta una guerra e un assedio senza fine a chi non era nato. Forse non se ne ha voglia, si vuole preservarli, però una trepidazione sotterranea spinge ad avvertire che è potuto succedere, dunque può succedere ancora. Certo, vent´anni non bastano a cedere di nuovo all´illusione della città della convivenza e della socievolezza. Ci sono ancora tutte quelle rose di mortaio sull´asfalto, un odore c´è ancora. E poi c´è la "normalità". Jovan Divjak, l´alto ufficiale di origine serba che restò dalla parte della Sarajevo bosniaca e diventò la bestia nera dello sciovinismo serbista, l´ha spiegata bene, la normalità di oggi, agli intervistatori dell´Osservatorio Balcani e Caucaso: «Si utilizza l´espressione "Stato di Bosnia Erzegovina", ma di fatto questo non esiste, esiste come concetto geografico, ma nella politica, nella cultura, nell´istruzione, nella realtà non trova riscontro. Sapete che il treno Sarajevo-Belgrado ha tre vagoni? Uno della Federazione bosniaca, uno della Republika Srpska (i serbobosniaci) e uno della Repubblica di Serbia, e i passeggeri comprano il biglietto per il "proprio" vagone, poi strada facendo si cambiano i locomotori. Questo è folle, è un´immagine chiara di questo Paese». Divjak si è occupato con una sua associazione dell´istruzione per i ragazzi poveri di ogni nazionalità (che vuol dire anche i rom, dettaglio tutt´altro che ovvio) e soprattutto orfani di guerra. Dice: «Oggi le nuove generazioni sono allevate nell´odio. Molto più che nel ´95». Dice: «Parliamo di Santic? Non credo che in una scuola in Republika Srpska - l´"entità" serba di Bosnia-Erzegovina con capitale Banja Luka - trattando Santic si consideri Emina. Si sceglierà sicuramente qualche altro tema». Aleksa Santic era un poeta di Mostar (1868-1924). Emina è la sua poesia più famosa. Lui era serbo, Emina musulmana.