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 2012  marzo 25 Domenica calendario

"Siamo un esercito di ladri" – Alle 00.00 un proiettile T.130 mm. / alle 2.00 un proiettile T.130 mm»

"Siamo un esercito di ladri" – Alle 00.00 un proiettile T.130 mm. / alle 2.00 un proiettile T.130 mm». Dai primi di aprile del 1992 il sibilo delle granate, dei mortai, il ruggito sordo dei razzi Katiuscia e il fischio dei proiettili dei cecchini sovrastarono il vociare nei mercati, il rumore del traffico, ogni altro elemento sonoro della vita quotidiana di Sarajevo. Gli obiettivi militari furono trascurati, il bersaglio, infatti, era l´intera città: da terrorizzare, da affamare, da soggiogare. «Ore 4.00 un proiettile T.130 mm. / ore 6.00 un proiettile T.130 mm». A vent´anni dall´inizio della guerra di Bosnia, dalle centinaia di pagine che abbiamo ritrovato - elenchi e carteggi, diari personali e diari di guerra segreti di alti ufficiali che dalle alture attorno a Sarajevo per mille lunghi giorni lentamente strangolarono la capitale bosniaca uccidendo più di diecimila persone e ferendone decine di migliaia - emerge per prima cosa, in tutta la sua lucida ferocia, la spaventosa contabilità dell´assedio. Su uno dei diari viene annotato l´esito di una riunione del 14 gennaio 1994, presenti il generale Ratko Mladic e Radovan Karadzic, oggi principali imputati alla Corte dell´Aja per i crimini di guerra nell´ex Jugoslavia. I due incitano i sottoposti: «L´operazione "Giubbotti antiproiettile" (nome in codice per la conquista di Sarajevo, nda) continua!». Vengono ascoltati. Il 5 febbraio arriva puntuale il massacro di Markale: una granata colpisce il mercato di Sarajevo, causando la morte di sessantotto civili e il ferimento di altri duecento. Ma questi diari ci raccontano anche chi erano e cosa pensavano gli assedianti serbo-bosniaci, cittadini jugoslavi che da seguaci del socialismo partecipativo e consumista di Tito si trasformarono in breve tempo in criminali di guerra. Nel diario 322/93, coperto da «segreto militare», un maggiore serbo scrive: «Lo stato di guerra è stato praticamente introdotto dal Comando militare, ma non possiamo dichiararlo ufficialmente per motivi politici gravi»: per un ufficiale dell´Armata nazionale jugoslava, uno dei più grandi eserciti del mondo, nato dal movimento partigiano, è il tentativo di giustificare a se stesso la follia di una guerra che lo costringe a combattere a fianco dei "cetnici", le bande dei nazionalisti panserbi e monarchici, eredi dei barbuti tagliagole dell´antico alleato dei nazifascisti, Draza Mihailovic. «C´è da coltivare nelle unità la mentalità da vincitori. C´è una grande possibilità di occupare Sarajevo» scrive altezzoso un altro ufficiale. La realtà che emerge dalle pagine successive del suo diario è diversa. L´ufficiale è costretto ad annotare un´angosciosa contabilità: «271 feriti leggeri, 125 gravi, 146 morti, 2 dispersi, ossia il 41%». Il 41% dei suoi uomini è fuori combattimento, gli altri sono indisciplinati o disertori. Quelli che non tornano dalle licenze o che scappano di notte sono molti. Ancora lunghi elenchi. L´ufficiale pensa a misure straordinarie: «Rinvio dei disertori alle corti marziali e pena di morte». Sui diari le annotazioni più riservate, o più segrete, venivano scritte a matita, non a penna. In caso di necessità potevano essere cancellate rapidamente senza lasciare traccia. Ma sfortunatamente per gli autori questi documenti sono stati recuperati dai difensori di Sarajevo, e così anche le annotazioni più imbarazzanti non sono state cancellate. «Tutti rubano tutto. Non c´è neanche la possibilità di riparare i fucili rotti...» scrive sfiduciato un ufficiale a proposito dei piani di addestramento dei soldati. Anche il Comando generale si lamenta degli approvigionamenti e ordina ai cecchini che infieriscono sui cittadini di Sarajevo di sparare solo a colpo sicuro: «Allo scopo di rendere l´attività il più economica ed efficace possibile... i cecchini combattenti devono usare armi con il silenziatore ed essere precisi». Un altro documento del Comando mostra il forte dissidio interno al fronte serbo-boniaco tra militari e politici circa le forze di interposizione dell´Onu: «L´autorizzazione per l´eventuale apertura del fuoco sulle strutture combattenti dell´Unprofor deve essere dato dal Comandante previa autorizzazione del Comando». Non si tratta però di rispetto della legalità internazionale, è solo una scelta opportunistica. L´esercito serbo-bosniaco è agevolato dalle decisioni di Yasushi Akashi, il plenipotenziario dell´Onu. Dopo la strage di Markale, l´ultimatum del 18 febbraio 1994 che impone di spostare i cannoni a venti chilometri da Sarajevo viene aggirato dai serbo-bosniaci sotto gli occhi dell´Onu. Nei diari è infatti scritto che i cannoni vengono spostati in zone che, comunque, rimangono sotto il controllo serbo-bosniaco, ed entro i venti chilometri dalla città assediata. Questa, poi, è anche una guerra di rapina e di traffici. E anche l´Unprofor, secondo quanto emerge dai diari, ha i suoi inconfessabili segreti. Gli intrallazzi tra i serbo-bosniaci e i soldati dell´Onu, russi e francesi, sono frequenti. Il 13 settembre 1994 un ufficiale serbo annota: «Riunione alle 9 con i francesi per ottenere dall´Unprofor i mezzi per trasportare la legna». I militari dell´Onu fanno anche i becchini: «Mentre aspettavamo il pranzo - scrive una giovane recluta - è arrivata l´Unprofor a scambiare un cadavere di un turco (così chiama i musulmano-bosniaci, nda) con uno dei nostri». Del resto i militari serbo-bosniaci si arricchiscono anche trafficando con gli stessi nemici. Vendono armi, munizioni, perfino un carro armato, per poche centinaia di marchi tedeschi. E poi c´è la noia. Un giovane soldato senza nome, arrivato in prima linea il primo settembre 1994 dalle pianure ai confini con la Croazia, nel suo diario scrive quello che pensa davvero della guerra: «Questa non è la mia terra! Preferirei morire oggi stesso a casa mia, piuttosto che vivere in questo posto 1000 anni! Ho pensato a questo tutto il giorno». Su quelle alte montagne, con la temperatura che scende in inverno fino a trenta gradi sottozero, infestate in estate da serpenti e altri animali, il morale dei soldati è basso. Un ufficiale annota quello che serve: «Un lanciarazzi da 82mm..., tv, patate, olio, margarina, cedevita (una bibita locale, nda), sigarette, carte da gioco, scacchi...». Un altro ufficiale filosofeggia: «L´intelligente vive finché vuole, mentre lo stupido finché dio glielo permette». E sembra aver idee chiare sull´esito della guerra: «Mentre noi bevevamo nei bar il nemico lottava in prima linea, ora noi lottiamo in prima linea e loro bevono nei bar... la formica ha lavorato tutto l´anno, la cicala ha cantato tutto l´anno, rubando i soldi all´Unprofor». Leggendo questi diari è difficile comprendere come questa armata brancaleone, composta da trafficanti, tagliagole e disertori sia riuscita a tenere in scacco per quattro lunghi anni i governi, le diplomazie, l´Onu. Più facile comprendere perché quel giovane soldato senza nome il primo ottobre 1994, dopo un attacco dei "turchi", senta il bisogno di scrivere una poesia: «Mentre andavo per le colline e per le montagne / È risuonato il pianto di una vecchia madre / vicino alla tomba del figlio / Caro unico figlio... alzati! / Caro figlio, il figlio più caro alla madre / Ho iniziato a piangere quando ho sentito il pianto della vecchia madre / Vicino alla tomba... ». Il 28 ottobre 1994 scriverà l´ultima pagina del suo diario e della sua vita.