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 2012  marzo 25 Domenica calendario

PULZELLA CASTA E VISIONARIA

Avevo certamente già visto altri film, soprattutto i western della sala parrocchiale del mio paese d’origine in Brianza, ma le immagini che mi si stamparono per sempre nella memoria e che, ancora adolescente, mi convinsero che il cinema poteva ben definirsi "la settima arte", sono quelle della Passione di Giovanna d’Arco (1928) di Carl Theodor Dreyer. E devo essere grato a Simonetta Salvestroni dell’università di Cagliari – che già avevo ammirato per un suo stupendo saggio sul Cinema di Tarkovskij e la tradizione russa (Qiqajon 2005) – per aver offerto a me e, credo, a tutti i cinefili di poter rivedere, anche solo col filtro visivo della memoria, la trama di quel capolavoro. Infatti, la prima tavola del suo emozionante trittico filmico dreyeriano, accanto al Dies irae (1943) e a Ordet (1954), è occupata da una finissima ricostruzione critico-narrativa della sequenza delle scene della Passione nelle quali impera il volto indimenticabile di Renée Falconetti, privo di qualsiasi trucco, quasi accecante nei potenti e implacabili primi piani tipici dello stile dreyeriano (tra l’altro, su 85.000 metri di pellicola girati, il regista danese ne usò solo 2.200!).
Giovanna è la figura attorno alla quale ruota tutta la folla degli altri soggetti, dai giudici gelidi o perversi come il collerico Jean d’Estivet, fino alle guardie sadiche, dal vescovo Cauchon che le sibila l’accusa di possessione diabolica fino all’usciere Massieu, l’unico a fremere di tenerezza, soprattutto nell’istante supremo del rogo, quando le permette di intravedere tra il fumo per un ultimo sguardo il Crocifisso reggendolo alto su un palo. Quel Crocifisso che Giovanna aveva stretto tra le braccia come se fosse un suo bambino, prima di salire sulla pira, quel "Gesù" che è anche la sua ultima parola da morente. E sarà la gente semplice, la folla spettatrice, che in quell’esecuzione vede un rito di canonizzazione: «Avete ucciso una santa!».
Perché siamo risaliti a questo evento che si era consumato sulla piazza del Mercato Vecchio di Rouen, città occupata dagli Inglesi, mercoledì 30 maggio 1431? Perché, sei secoli fa, il 6 gennaio 1412 nasceva in un villaggio della Lorena in una famiglia di contadini proprio lei, la Pulzella di Orléans, così denominata per aver liberato quella città dagli invasori inglesi e aver condotto il debole Carlo VII a essere incoronato nella cattedrale di Reims. Saranno, però, alla fine proprio dei francesi, i collaborazionisti borgognoni, a consegnarla ai nemici per quel processo-passione, e non per trenta denari ma per diecimila scudi. Ci vorranno 25 anni e un secondo atto giuridico – celebrato nell’aula magna dell’episcopio di Rouen il 7 luglio 1456 – a riabilitare Giovanna.
È impressionante il fatto che a quel secondo processo assistesse forse sua madre, Isabelle Romée, che morirà due anni dopo. Ancor oggi, gli studiosi possono sfogliare le carte processuali originali, autenticate dai notai e, nel primo procedimento, suggellate col sigillo del vescovo giudice Cauchon di Beauvais. Ci vorranno, però, quasi cinque secoli perché Giovanna venga prima beatificata (1909) e poi canonizzata (1920) e proclamata patrona di Francia (oltre che della radio-televisione francese e dei telegrafisti a causa delle sue visioni e rivelazioni celesti). Ma la figura di questa santa ha talmente affascinato i secoli da essere necessaria un’intera bibliografia per ricostruirne la presenza insonne nelle arti e nella spiritualità. Una figura non di rado strattonata ad essere una sorta di partigiana in una guerra di liberazione o un’eroina nazionalista con venature fanatiche, oppure corteggiata come femminista ante litteram, capace di ergersi contro il potere ecclesiale maschilista.
Paolo Mereghetti, nell’edizione 2011 del suo imprescindibile Dizionario dei film, dedica a Giovanna d’Arco una voce a sé stante che cerca di coprire sinteticamente quella quarantina di film che l’hanno vista protagonista, con registi del calibro di Bresson (mirabile è il suo Processo di Giovanna d’Arco del 1962), di Rossellini che trasporrà, nel 1954, con Ingrid Bergman protagonista, l’oratorio di Paul Claudel messo in musica da Honegger nel 1938, di Luc Besson che allestisce un film spettacolare di quasi tre ore nel 1999, di Jacques Rivette anch’egli fluviale (1994), riscattato, però, da un’ottima interprete come Sandrine Bonnaire, e così via risalendo persino al mitico De Mille con la sua Joan the Woman del 1917. Ma pochi sanno che anche l’ironico Mark Twain si lasciò conquistare dalla santa lorenese fino a scriverne una biografia, preceduto dall’irrispettoso e parodistico Voltaire del poema La Pucelle del 1755 e seguito dal dramma di George Bernard Shaw con la curiosa ipotesi della risurrezione di Santa Giovanna (1923). Altrettanto pochi sanno che, tra le opere di Verdi, c’è anche una Giovanna d’Arco in tre atti con un libretto sulla falsariga della tragedia Die Jungfrau von Orléans di Schiller (1801), melodramma rappresentato a Milano nel 1845. Ma fermiamoci qui perché la lista diverrebbe interminabile, soprattutto se si allegasse anche l’iconografia, a partire dalle miniature del ’400 per approdare alla Giovanna che assiste, bella e imperiosa, all’incoronazione di Carlo VII in un dipinto di Ingres al Louvre (1851) o alla Pulzella che bacia la spada di Carlo Magno in una tela di Dante Gabriele Rossetti. Noi vorremmo solo riservare un cenno finale alla dimensione mistica della santa. Studiate a livello psicologico, le visioni sostanzialmente attestano un canale diverso di conoscenza e di esperienza rispetto a quello contingente e immediato, comunque lo si voglia classificare (paranormale, preternormale, soprannaturale) secondo le differenti prospettive di analisi. Giovanna ha le sue prime esperienze mistiche a tredici anni mentre è nei campi con le pecore di suo padre Jacques d’Arc. Dalle deposizioni processuali affiorano i contenuti di quelle visioni nelle quali si rivela il primato della grazia divina e della fede: «Se non fosse la grazia di Dio, io non saprei far niente». All’Inquisitore che la incalza mettendo in dubbio che lei sia in grazia di Dio, Giovanna replica: «Se lo sono, che Dio mi ci mantenga; se non lo fossi, che Dio mi ci conduca!».
La qualità trascendente della sua vicenda è da lei ininterrottamente proclamata, a tal punto che ogni sua scelta sboccia dopo la preghiera e l’ascolto silenzioso delle "voci". La sua stessa verginità è il simbolo di una consacrazione assoluta a Dio e l’armatura ne diventa un emblema, così come lo è l’inaccessibilità che questa giovane donna sprigiona e irradia dal suo corpo anche in mezzo ai plotoni maschili dei guerrieri. Forse pensava a lei Milton quando in Comus scriveva: «E la Castità, fratello, la Castità: /colei che va tutta vestita d’acciaio». Giovanna stringe sempre tra le mani il vessillo di Francia «per evitare di uccidere qualcuno impugnando la spada: io non ho mai ucciso nessuno». Aveva ragione il famoso teologo e intellettuale francese Jean Daniélou, quando di questa santa "secolare" affermava: «la sua è stata la vocazione alla santità in seno a ciò che costituisce il tumulto umano».