Giorgio Barba Navaretti, Domenica-Il Sole 24 Ore 25/3/2012, 25 marzo 2012
FORD, RINASCITA A MISURA D’UOMO
«Noi celebriamo i fratelli Dodge con grande affetto» dice una fragile anziana signora, guida turistica del primo stabilimento della Ford, un edificio in mattoni rossi di tre piani, da cui vennero sfornati tra il 1908 e il 1910 i primi esemplari della mitica Ford T, l’auto per le masse, quella che anche gli operai potevano permettersi. A Piquette Avenue, nel centro di Detroit, del rombo manifatturiero rimangono solamente muri e spazi silenziosi e qualche vecchio modello dato in prestito da generosi collezionisti. Per il resto è uno stabile strappato all’oblio da un gruppo di volenterosi pensionati, abbandonato dalla Ford nel 1910, troppo piccolo e lento per le immense e veloci catene di montaggio, sopravvissuto a stento fino a oggi. Piquette assemblò 12.000 modello T. Nel nuovo impianto di Highland Park ne vennero costruite quindici milioni, fino al 1927.
Forse proprio perché si tratta di una briciola nella storia della mobilità di massa, o forse perché i nostri pensionati sono genuinamente super-partes, Piquette può celebrare la fusione di talenti che forgiarono l’industria dell’auto americana in incroci inattesi e piuttosto adulteri. I fratelli Dodge, prima di diventare produttori in proprio, progettarono le prime Oldsmobile (della General Motors dal 1908) e furono soci di Henry Ford, contribuendo a molte delle soluzioni ingegneristiche e fornendo i componenti del modello T. Morirono entrambi nel 1920. La Dodge Brothers Motor Vehicle Company fu venduta alla Chrysler nel 1928.
Insomma con Piquette e il talento dei Dodge si incrocia la storia delle tre major dell’auto americana.
Ma la contemporaneità di Piquette non sta solo nell’essere la radice "motoveicolare" più remota che si possa trovare a Motown. Sta in un’idea di fabbrica dove ciascuno, dal capo al più umile degli addetti, vive in una comunità e contribuisce con il proprio ingegno, non solo con la forza delle braccia, a mettere insieme una meraviglia della meccanica.
L’orgoglio dell’anziana guida assomiglia molto a quello del direttore dello stabilimento della Chrysler di Toledo Nord nell’Ohio, mandato due anni fa a rinnovare la produzione di un altro mito americano, la Jeep Wrangler (prodotta qui da settant’anni). Toledo sembra un’infermeria tirata a lucido più che una fabbrica, piena di macchine e persone che lavorano senza rumore, senza fumo, senza olio, senza scarti. È silenziosa come Piquette, ma piena di vita. Il principio del direttore di stabilimento è che la vita bisogna conquistarsela: dobbiamo essere abbastanza efficaci perché all’azienda convenga produrre e investire qui. Il concetto che siano gli impianti a doversi meritare gli investimenti rovescia completamente la logica di un processo decisionale che parte dall’alto, fondato su numeri e calcoli finanziari e ingegneristici. Il punto a favore del direttore di stabilimento, rispetto ad ingegneri e finanzieri, è che la dimensione dei numeri (quanto costa fare un’automobile a Toledo) dipende da lui e da tutti suoi operai. E allo stesso modo la pensa il presidente del sindacato, della Uaw (United Auto Workers) di stabilimento. L’obiettivo di ridurre i numeri è così condiviso da tutti e tutti contribuiscono. La linea di montaggio è organizzata in squadre di 7-8 persone ciascuna. Ogni squadra svolge diverse funzioni a rotazione tra i suoi membri. L’operaio di linea ha compiti estremamente standardizzati, studiati in modo da minimizzare i tempi di esecuzione e migliorare l’ergonomia, ma allo stesso tempo fa proposte concrete su come ridisegnare linea e funzioni, mostra orgoglioso accanto alla sua postazione statistiche con media e deviazione standard della performance del suo team. Insomma ha un senso di possesso delle sue funzioni e dell’impianto e così contribuisce ad "attrarre gli investimenti".
Questo concetto di fabbrica, il "World class manufacturing" introdotto a Chrysler dal gruppo Fiat, non so quanto sia comune anche ad altri impianti a Detroit. Certamente, tutte le fabbriche di auto a Motown stanno risorgendo, sfornando di nuovo numeri crescenti di veicoli. In parte è congiuntura, ma molto dipende dal modo in cui è stata reinventata la fabbrica. Tra Piquette e Toledo, ci sono le rovine industriali di impianti come River Rouge, la città fabbrica della Ford, costruita dopo Highland Park, dove lavoravano 120mila persone, troppe per poter pensare di essere in competizione per attrarre nuovi investimenti o per arrivare a concepire che ogni singolo operaio sulla linea possa avere abbastanza individualità per migliorare il processo: le auto si facevano lì e basta. Ora River Rouge è un ammasso di rovine. C’è un meraviglioso libro di fotografie di Andrew Moore, Detroit Disassembled (Detroit smantellata, Akron Art Museum e Damiani Editore, pagg. 128, € 550) che illustra lo sfacelo del modo di produrre impersonale e infinito delle linee di montaggio tradizionali.
La cosa straordinaria di Detroit è proprio l’accostamento tra le rovine a cielo aperto di quel che non funziona più e la realtà delle fabbriche rinate, grandi ma non immense, (Toledo ha 1.830 lavoratori) sparse nei sobborghi intorno alla città. L’accostamento ricorda che nulla è permanente in economia, per quanto immenso e possente. E soprattutto che non c’è rovina da cui non si possa rinascere.
Le automobili di Detroit stanno rinascendo grazie ad un’alleanza tra Stato federale, nuovi manager, azionisti e lavoratori che ha nell’attività tecnica e industriale il suo perno. Questo risultato è stato in parte reso possibile da una forza lavoro che ha accettato di rinunciare a privilegi conquistati con durissime lotte e da un sindacato forte, di fatto unico ma responsabile. Le rinunce salariali, l’introduzione di un sistema duale che prevede paghe inferiori per i nuovi entrati (comunque a condizioni equivalenti se non migliori a quelle europee), sono compensati da una prospettiva di futuro a cui tutti partecipano e che tutti possono misurare.