Giuliano Ferrara, il Giornale 25/3/2012, 25 marzo 2012
Gli insospettabili alfieri dell’inciucio anti-riforma - I nemici della riforma del mercato del lavoro vengono allo scoperto, e anche in fretta
Gli insospettabili alfieri dell’inciucio anti-riforma - I nemici della riforma del mercato del lavoro vengono allo scoperto, e anche in fretta. Non parlo della Cgil, che alla fine si porta sempre appresso anche la Cisl, perché resta memorabile anche per Raffaele Bonanni la bastonatura cui fu sottoposto quel poveretto di Savino Pezzotta, il suo predecessore che firmò con il governo Berlusconi per una sospensione sperimentale di tre anni dell’articolo 18 e finì con i violenti di ogni risma a tirargli bombe e bulloni, fino a essere letteralmente cacciato dalla direzione sindacale. Non parlo di quei «pazzi di Dio», vescovoni e politici cattolici, incapaci di capire che non si disumanizza un lavoratore, soggetto di tutte le tutele giuridiche dovute (mica hanno abrogato la magistratura del lavoro questi golpisti di Francoforte insediati al governo), se si stabilisce che un’impresa può riorganizzarsi nell’economia moderna e globalizzata senza che una legge di mezzo secolo fa glielo impedisca. I lavoratori non sono merce, caro attivista prodiano monsignor Bregantini, ma il lavoro è un fattore della produzione e per questo non è il «posto» di lavoro garantito. Anche il capitale è un fattore della produzione, e se non si investe non c’è lavoro, anche i giovani disoccupati sono persone,e se non c’è libertà di impresa se ne stanno ai margini come sudditi, altro che Leone XII e balle varie. Non a tutti capita la fortuna di un Carlo De Benedetti, nemico fierissimo di Fornero e della sua riforma, non a tutti è dato di piazzare alle poste i dipendenti di un’impresa fallita come la Olivetti. Non parlo dei sociologi impazziti che pensano alla Fornero, che fa rima con cimitero nel Paese di Biagi e D’Antona, come a «un nuovo Vittorio Valletta», il duro e discriminatorio capo della Fiat degli anni Cinquanta e Sessanta. Non penso nemmeno ai magistrati del lavoro di Potenza, ideologici difensori in giudizio del «forte antagonismo» di tre dipendenti di Melfi che bloccavano la produzione come succedeva nelle fabbriche Fiat negli anni Settanta, con metodi intimidatori e violenti. Questo tipo di figure o figuri era già nel conto. I veri nemici obliqui di un Paese libero e responsabile, in cui le cose possano cambiare, in cui il lavoro si possa creare per tutti, sono i signori del compromesso ideologico e d’affari permanente. I ministri cattolici e postcomunisti che in Consiglio dei ministri strepitano contro il passo più importante fatto dal governo Monti in materia di riforme di struttura. Il nuovo capo di Confindustria che fa su Repubblica una immediata apologia a comando della coesione modello consociazione, che va ghiotto di Cgil in trincea nel momento in cui sedici ore di sciopero generale sono indetti per combattere contro i mulini a vento dell’economia senza frontiere. I giornalisti ipocriti che stanno lì a blaterare, perché questo vogliono editori più ipocriti di loro, del modello tedesco, sulla scia del bullo di Piacenza: dateglielo a Bersani il modello tedesco, cioè una magistratura del lavoro con i fiocchi dell’etica d’azienda, uno sfruttamento degli impianti cogestito con i sindacati aziendalisti che nemmeno Marchionne si sognerebbe mai di imporre a Pomigliano e a Mirafiori. E adesso vedrete come salteranno fuori alle Camere i soliti inciucioni che hanno messo storicamente il Paese in ginocchio, che hanno liquidato ogni istanza riformatrice seria di governi eletti con maggioranze forti e programmi chiari, che hanno impantanato nelle mezze misure i conti dello Stato e la competitività e produttività dell’impresa, con un Paese indebitato in modo spettacolare, incapace di uscire dalla stagnazione, in cui tutti ci sentiamo alla fine sudditi impauriti e bisognosi di protezioni sociali di un altro secolo. Per adesso a reggere tutto il peso della verità politica, e del coraggio di proclamarla in pubblico, ci sono il capo del governo, il ministro del Lavoro e il presidente della Repubblica. Sono gli unici a ricordare che il dramma dell’Italia è la crisi industriale e dei servizi, non la possibilità di riorganizzare l’impresa assumendo e stabilizzando i lavoratori che arrivano, e quando è necessario, salvo il diritto ovvio alla causa di lavoro che deve durare tre mesi e non cinque anni, licenziando per ragioni economiche e organizzative. Entro l’estate si vedrà se siamo seri o una manica di buffoni, di retori, di piagnoni e di finti umanisti che lavorano per un sistema di complicità interessate a tutti i livelli, che non dà altri benefici che una falsa sicurezza sociale. Intanto mi infurio, mi sfogo, e mi auguro lo spread a settecento e oltre, così, tanto per ricordare a questa manica di filistei, che pensano di salvarsi la coscienza solidale e di classe con l’ipocrisia, come stanno le cose.