La Stampa 25/3/2012, 25 marzo 2012
Fare affari è troppo complicato - Un Paese vischioso, che attrae pochi investimenti esteri (Ide) e povero di multinazionali
Fare affari è troppo complicato - Un Paese vischioso, che attrae pochi investimenti esteri (Ide) e povero di multinazionali. La fotografia del sistema Italia, alla vigilia del viaggio in Oriente del premier Mario Monti, assume l’urgenza dell’occasione da non perdere perché nel mondo globale, senza più margini per fare spesa pubblica per investimenti, gli Ide sono l’unica carta per rilanciare lavoro, produttività e occupazione. Secondo alcune simulazioni del Comitato investitori esteri di Confindustria, 10 miliardi di euro di Ide ne generano 2,5 l’anno di valore aggiunto diretto. Monti insiste da 3 mesi su questo tasto. Le riforme messe in campo, dalle pensioni, al lavoro, alle liberalizzazioni, puntano a disegnare la traiettoria di un Paese che ha imboccato una discontinuità virtuosa. Dopo il viaggio negli Stati Uniti, il premier proverà a vendere il «marchio» Italia in Corea del sud, Giappone e Cina. Non sarà facile. Secondo l’ultimo rapporto dell’Unctad, Roma non rientra nella top 20 dei Paesi più interessanti per i progetti di espansione delle multinazionali. Nella lista Ocse è ultima nel ranking europeo sull’attrazione di Ide, per un valore complessivo, accumulato nel corso degli anni, di circa 337 miliardi di dollari, contro i 614 della Spagna, i 674 della Germania, i 1,008 della Francia e i 1,086 del Regno Unito. Dopo l’ultima crisi la situazione è persino peggiorata: gli investimenti nel triennio 2008-2010 sono scesi a 18 miliardi (l’1,6% dell’intera torta che affluisce in Europa). Nel 2011 Roma ha segnato un ulteriore -53%, contro una media Ue di -7%. La ricaduta sull’occupazione è immediata: in Francia 14 lavoratori su 100 lavorano in aziende a controllo straniero, in Svizzera e Germania la percentuale scende a 9,2, in Italia crolla al 3,7. Perché attraiamo poco? Il bollettino è irrisolto da anni: in Italia ci vogliono 1.210 giorni per far valere e rispettare un contratto. Siamo 134esimi su 142 Paesi per flessibilità dei salari, 126esimi per politiche di assunzione, 125esimi per reddito rispetto al cuneo fiscale e 87esimi nella classifica dei Paesi in cui è meno complicato fare affari, causa scarse libertà economiche, vischiosità del sistema tributario e lentezza dei tribunali. Non il massimo per un Paese membro del G8. Se prendiamo i tre Paesi al centro del viaggio di Monti, si capisce bene il deficit. I nostri Ide in uscita verso la Corea del sud valgono 418 milioni di dollari, quelli coreani in Italia appena 369. Numeri irrisori se paragonati con i «bilaterali» di altre economie europee come la Germania, che «scambia» con la Corea investimenti per 8,9 miliardi di dollari, o la Gran Bretagna, che ne scambia 10. Con il Giappone, nonostante un buon interscambio (9 miliardi divisi a metà tra importazioni ed esportazioni), la maggioranza dei pochi Ide è rappresentata da filiali commerciali e investimenti immobiliari. E la Cina? «Pechino è spaventata dall’immobilismo italiano», raccontano fonti diplomatiche. «Vediamo i ritardi sulla Tav, le incertezze legislative e giudiziarie». Una volta al mese nel Belpaese sbarcano emissari della China development bank e del fondo sovrano Cic: vagliano, ma poi la domanda tipica è: «Chi decide in Italia?» Non trovano quasi mai una negoziazione avanzata. «C’è sempre il timore di trovarsi di fronte a regole cambiate in corso d’opera…» Il risultato è che nell’ultimo quinquennio, solo il 3% delle 423 operazioni «estero su Italia» sono state effettuate da investitori cinesi. Un’economia così insulare diventa il terreno ideale per chi punta semplicemente al raid industriale, a caccia di prede ambite. Questo fa tutta la differenza tra investimenti cosiddetti «brownfield» (in attività già avviate) e «greenfield» (in attività da sviluppare ex novo): per le imprese estere è molto più facile venire in Italia ad acquisire attività già strutturate, per farne il classico spezzatino estraendone valore (oppure inglobare qualche gioiellino per acquisire brand e know how), piuttosto che imbarcarsi in attività nuove e durature, con tutte le difficoltà del caso (dal fisco alla burocrazia). Anche per questo le nostre multinazionali tascabili sono vulnerabili allo shopping straniero. Nel 2011 (fonte Kpmg), l’Italia è stata «terra di conquista» quasi sempre nella versione «brown»: le operazioni «estero su Italia» sono state 108, per un totale di 18 miliardi di euro, in netta crescita dai 10 miliardi 2010. Nella top ten ci sono investitori americani, inglesi, i francesi con la presa di Parmalat e Bulgari (da parte di Lactalis e Lvmh), ma anche i sonnacchiosi giapponesi, entrati in Permasteelisa (progettazione e realizzazione di rivestimenti architettonici) con il conglomerato JS Corporation, nella società di consulenza IT Value Team fondata da Giorgio Rossi Cairo con NTT Data Corporation, e in Ansaldo Trasmissioni & Distribuzioni con Toshiba Corporation.In movimento anche coreani (Eland World ha appena comprato Mandarina Duck) e cinesi che negli ultimitempi hanno rilevato aziende storiche come Benelli e Idra presse, sono entrati all’8% con Peter Woo in Ferragamo, hanno comprato il marchio Miss Sixty con Trendy Group International, un brand storico dell’automotive italiano come De Tomaso con Car Luxury Corporation e, infine, il 75% di Ferretti, il maggior produttore mondiale di yacht di lusso, con il colosso Shig-Weichai. «Dopo il decennio del bunga bunga l’industria italiana sta finendo ai saldi. I cinesi hanno i soldi ma non i brand», ha scritto l’Economist. Sarebbe lo scenario peggiore. I nostri gioielli diventano prede, senza che il Paese possa godere dei benefici di investimenti strategici.