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 2012  marzo 25 Domenica calendario

LE RAGIONI DI UN ANNUNCIO IN ANTICIPO

Maturato da tempo, comunicato a gennaio a una platea di studenti e reso noto ieri in occasione della trasmissione di un programma di Rai Storia dedicato alle istituzioni, il «no» di Napolitano all’ipotesi di un bis della sua presidenza, di cui per la verità sempre più spesso si sentiva parlare negli ultimi tempi, non va interpretato con il metodo delle letture trasversali con cui in genere si esaminano le mosse dei politici italiani.

Se dice che non si ricandida, insomma, vuol dire esattamente quel che ha detto, non il contrario, e neppure che lo ha fatto per stanare la sincerità o meno di quelli che puntualmente, come succede quando il settennato volge verso la fine, hanno cercato anche stavolta di avviare anzitempo la corsa per il Quirinale.
Semmai c’è da riflettere sul momento - gennaio 2012 - in cui Napolitano ha deciso di mettere agli atti la propria indisponibilità per un’eventuale ricandidatura.

Gennaio infatti, dopo il novembre 2011 che l’aveva preceduto, era il mese in cui legittimamente l’esperimento del governo tecnico voluto dal Capo dello Stato, dopo le dimissioni di Berlusconi, poteva già dirsi riuscito. L’esecutivo guidato dal professor Monti, il candidato, ex commissario europeo, richiamato con forza alla vita pubblica dal Presidente con la decisione a sorpresa di nominarlo senatore a vita, aveva rapidamente superato la fase di rodaggio con il varo in tempi brevi delle prime due riforme, pensioni e liberalizzazioni, che dovevano dare l’impronta all’azione di risanamento e di salvataggio dell’Italia da un’emergenza grave quanto mai.

Un’azione così risoluta, e dai risultati così immediatamente concreti, che proprio in quel periodo si moltiplicavano le voci a favore, sia di un consolidamento e di una prosecuzione, anche dopo le elezioni politiche del 2013, dell’esperienza del governo tecnico sostenuto dalla larga maggioranza dei tre maggiori partiti, sia di un rinnovo del mandato al Quirinale per Napolitano, che di Monti fin dal primo momento è stato il garante.

Se invece proprio in quegli stessi giorni il Presidente ha ritenuto, in un programma in cui, data la delicatezza della congiuntura, poteva tranquillamente cavarsela con risposte formali, di cogliere l’opportunità per fugare ogni dubbio sulla possibilità di una sua ricandidatura, le ragioni intuibili sono almeno tre. La prima sta nelle sue stesse parole e nella gravosità del compito che è stato chiamato a svolgere negli anni della sua presidenza: non dev’essere stato affatto facile assistere, giorno dopo giorno, all’avvitarsi del proprio Paese in una crisi che sembrava senza ritorno e al cospetto di una classe politica incosciente, che solo dopo aver messo un piede nel baratro ha deciso di fare un passo indietro.

La seconda, più implicita, è la consapevolezza di aver dato un senso alto e percepibile al proprio mandato. Intendiamoci, specie negli ultimi anni, tutte le presidenze che si sono succedute hanno segnato la storia contemporanea e le speranze, spesso tradite, del Paese. Pertini, con il suo carattere, scosse l’albero di una Repubblica cristallizzata. Cossiga, con il piccone, la demolì. Scalfaro timonò la nave nella tempesta della prima transizione. Ciampi si assunse il compito di ridare dignità allo Stato e alla nazione. E Napolitano - anche perché la sua storia personale è quella del primo Presidente comunista, politicamente nato e cresciuto nel Pci e all’opposizione, e solo successivamente, negli ultimi venti anni, approdato al servizio delle istituzioni -, si è assegnato l’obiettivo più difficile. Quello di un ritorno alle regole, e se possibile di un loro rinnovamento, nello spirito della Costituzione, per un Paese che s’era illuso di poter vivere in una specie di rivoluzione permanente, in cui il risultato storico di una completa legittimazione politica di tutte le forze politiche e di una piena alternanza basata sulle scelte dirette degli elettori veniva costantemente tradito da una pratica di colpi bassi, tradimenti minacciati e perpetrati, voti comperati e venduti e disprezzo delle istituzioni, e in cui le coalizioni e gli esecutivi di diversi orientamenti, che pure si succedevano democraticamente, condividevano l’incapacità pratica di governare e affrontare i problemi italiani con le necessarie riforme. Dalla transizione all’emergenza, e non solo a quella economica con cui stiamo facendo i conti. Ma anche, inevitabilmente, a quella istituzionale: questa è stata la croce portata sulle spalle da Napolitano.

Volendo abbozzare un bilancio, si può dire che l’obiettivo che il Presidente si era dato è stato raggiunto soltanto a metà. Napolitano è riuscito a por fine all’epoca berlusconiana un momento prima che questa precipitasse nel disastro. Lo ha fatto con fermezza e serenità, adoperando i normali e limitati poteri che la Costituzione assegna al Capo dello Stato. Ma trovandosi ad agire in un quadro-limite, non ha potuto che sostituire a un assetto eccezionale, un altro, diverso, ma non proprio ordinario. Il risultato politico di aver convinto uno come Berlusconi a mettersi da parte c’è tutto e sarà scritto nella storia. Ma il problema del ritorno alla normalità, anche attraverso un percorso riformatore della Costituzione che lo consenta e lo agevoli, non è affatto risolto.

La terza ragione per cui Napolitano ha escluso il bis sta in questo. Forse il Presidente s’è reso conto che per arrivare al traguardo che ha accompagnato ogni giorno del suo settennato, ed è tornato in ciascuno dei suoi messaggi di Capodanno, il tempo e le risorse che gli rimangono non bastano, ed è indispensabile che qualcuno al posto suo raccolga il testimone e continui l’opera. Oppure, al contrario e malgrado la mediocrità che proprio in questi giorni i partiti continuano a mostrare di fronte alla gravità degli impegni che il Paese ha di fronte -, ha inteso dire che di qui alla fine del suo mandato, nel maggio del 2013, nessuno dei suoi atti potrà e dovrà essere collegato all’eventualità di una riconferma, che non a caso ha voluto escludere con largo anticipo. Napolitano insomma farà ancora tutto quel che ritiene giusto e utile. E lo farà fino all’ultimo giorno del suo mandato.