Paolo Fallai, la Lettura (Corriere della Sera) 25/03/2012, 25 marzo 2012
MARCHESI, L’UMORISTA CHE CREO’ UN’ATMOSFERA
Ci vuole talento per entrare nella vita di milioni di persone senza che quasi se ne accorgano. O per cucirsi addosso il vestito di «un signore di mezza età» a mascherare una intelligenza giovanissima. Sbeffeggerebbe i cento anni, il prossimo 4 aprile, Marcello Marchesi, milanese di nascita, romano di adozione, che di anni ne ha vissuti solo 66, accidenti. E nei quaranta di lavoro è stato forse uno dei più grandi umoristi italiani, un «malato di parole» si definiva, declinando questa passione in un’infinità di variazioni: sceneggiatore, paroliere, regista, inventore di caroselli e calembour, battutista, ma lui preferiva «sloganaro o battutaro».
La verità è che ce l’ha messa tutta per entrare nei nostri modi di dire e c’è perfettamente riuscito. Non serve citare che era sua Anche le formiche nel loro piccolo s’incazzano, straordinario titolo della raccolta di aforismi curata da Gino & Michele e Matteo Molinari. Piuttosto qualcuno dei quattromila caroselli inventati: «Con quel sorriso può dire ciò che vuole», «Non è vero che tutto fa brodo», «Il signore sì che se ne intende», «Il brandy che crea un’atmosfera», «Falqui, basta la parola». O la serie di film per Totò, sceneggiati con Vittorio Metz: L’imperatore di Capri, Sette giorni di guai, Siamo uomini o caporali?, Fifa e Arena, 47 morto che parla. Eccola la malattia che ci ha lasciato Marcello Marchesi: non si può parlare di lui senza essere sommersi da elenchi di titoli, bibliografie di spot, enciclopedie di battute.
La sua storia è quella di un uomo che non stava mai fermo: ha cominciato a tre anni, trasferito dalla casa milanese in quella romana di uno zio. Una cosa provvisoria destinata a durare 18 anni. Tornato a Milano, la laurea in giurisprudenza e il praticantato legale in uno studio non riuscirono a tenerlo lontano dai teatri. E al Lirico, nel 1936, lo vide Andrea Rizzoli, che lo prese subito con sé per far nascere «Il Bertoldo», il giornale umoristico che doveva far concorrenza al romano «Marc’Aurelio». Dopo aver capito, in pochi mesi, che quell’inestinguibile fuoco di fila di gag, battute e scenette, poteva dargli da vivere, Marcello Marchesi alzò lo sguardo e non si fermò più. Già nel 1937 collabora con la radio inventando programmi come AZ Radioenciclopedia, e subito dopo Indovinala grillo, Andata e ritorno, Spiritosissimo. Un anno dopo, e siamo solo nel 1938, si avvicina al teatro di rivista. Giusto quanto basta per scrivere testi a personaggi come Carlo Dapporto, Walter Chiari, Ugo Tognazzi, Gino Bramieri, Wanda Osiris, Tino Scotti.
Nella redazione del «Bertoldo» aveva conosciuto Vittorio Metz, incontro fondamentale per la sua vita. Lavoreranno insieme per decenni e Marchesi continuerà a dargli sempre del «lei». «È più anziano» si giustificava. Ma è proprio Metz a trasferirsi a Roma portandosi dietro Marchesi e regalando al cinema una delle più straordinarie coppie di sceneggiatori di tutta la nostra storia. Sentite come racconta l’esito del primo film scritto a due mani per Macario, Imputato alzatevi! di Mario Mattioli: «Presi dall’entusiasmo riempimmo la sceneggiatura di tante battute che il pubblico non aveva il tempo di ridere: se rideva, ne perdeva metà, una coprendo di risate le battute pari, l’altra le dispari…».
Alla fine, i film sceneggiati saranno una sessantina. Scritti tutti in una stanza dell’hotel Moderno, a Roma, che di moderno aveva solo il nome. Film poverissimi, quasi tutti, spesso parodie arrangiate di corsa per sfruttare le scenografie dell’originale, ma con attori, a cominciare da Totò e Walter Chiari, capaci di esaltare ogni sfumatura.
Nel 1952 Marchesi lascia ancora Roma e torna a Milano: c’è la televisione che sta per nascere e lui sarà uno dei primi a farsi trovare pronto. Quando il monoscopio si accende, nel 1954, lui sforna una dopo l’altra Invito al sorriso, Ti conosco mascherina con Antonella Steni che avrebbe fatto innamorare mezza Italia; Lui e lei, versione grottesca dello scontro tra sessi che avrebbe segnato tanto una giovanissima Sandra Mondaini da indurla a farne una cifra del suo personaggio. Prima da sola, poi con Raimondo Vianello. È l’alba dei grandi successi, arrivati con gli anni Sessanta: L’amico del Giaguaro con Corrado, Gino Bramieri, Raffaele Pisu e Marisa Del Frate, o Quelli della domenica, dove Paolo Villaggio propose per la prima volta il dottor Kranz e Fracchia. E ancora Canzonissima tra il 1969 e il 1971 e la scoperta, poco dopo, di una coppia di comici surreali nei quali è il primo a credere: Cochi e Renato.
Ma bisogna tornare indietro, al 1963, per fissare — in questo fiume in piena che è il racconto di una vita così tanto vissuta — il momento in cui gli italiani scoprirono che faccia aveva Marcello Marchesi: accadde quando si propose come conduttore televisivo con Il signore di mezza età dissacrando l’Italia del boom, i vizi antichi degli italiani che non potevano essere lavati nella lavatrice appena acquistata, o il sogno di una gioventù che inevitabilmente passa, lasciando scie di ridicolo. Vicino a lui c’erano straordinari interpreti come Monica Vitti, Lina Volonghi, Sandra Mondaini e un ragazzino chiamato Gianni Morandi.
Dopo aver fatto cantare gli italiani con Bellezze in bicicletta, del 1951, portata al successo da Silvana Pampanini, e Taratapunziè, sigla di Canzonissima nel 1972, cantata da Loretta Goggi, li ha fatti sorridere raccogliendo i suoi aforismi in tanti libri, scandalosamente oggi fuori catalogo: Diario futile, Essere o benessere, Il sadico del villaggio, Sette zie, Il malloppo. D’altronde ci ha lasciato una bella lezione: «Ogni nuovo libro danneggia quelli usciti. Che rimorso, rubare un solo lettore ai classici».
Negli anni 70 l’ultima svolta della sua vita: lascia Milano e torna a Roma, nella casa d’angolo tra via Frattina e via del Corso, a due passi da Settimio, il ristoratore di via dell’Arancio che gli offre ospitalità e polpette di bollito. In quello stesso ristorante c’è ancora alla parete il menù con gli angioletti disegnati da Guido Clericetti — uno dei suoi tanti allievi — per il battesimo del figlio Stefano Massimo, nato nel 1978 dal suo matrimonio con la giovanissima Enrica Sisti. Ed è in questa Roma che Marcello, proprietario di una Fiat 500, che fa guidare a un autista, conosce la felicità. Dopo la nascita del figlio esclama: «Per la gioia sono ingrassato di dieci chili, e dire che avevo fatto sacrifici inutili per calare di venti».
È difficile dire chi fossero i suoi «padri». Viene in mente l’ironia a volte amara ma sempre affilata della sconosciuta poesia italiana dell’800, quella degli Olindo Guerrini o dei Ragazzoni. Ennio Flaiano, poteva essergli fratello. Leo Longanesi, uno zio acquisito e indispettito. Lo racconta Indro Montanelli: «Leo Longanesi che amava Marcello Marchesi rabbiosamente per lo spreco che faceva del suo talento, quando lo incontrava, gli diceva: "Devo fare una telefonata, mi dai un gettone di intelligenza?". E un giorno mi ordinò un epitaffio per lui. Eccolo: "Qui giace un nessuno — che se avesse voluto — avrebbe potuto diventare — Marcello Marchesi —. Purtroppo o per fortuna — non lo seppe mai —. Come tutti i geni — era un cretino"». Di figli d’arte ne ha avuti molti: da Guido Clericetti a Maurizio Seymandi, da Maurizio Costanzo a Enrico Vaime. L’elenco dei saccheggiatori, invece, è talmente lungo che in una pagina di giornale non ci sta.
Marcello Marchesi è morto come è vissuto: per scherzo. Un giorno d’estate, il 19 luglio 1978, volendo giocare sulla spiaggia col figlioletto, è caduto, annegato in poca acqua a San Giovanni di Sinis, nel golfo di Oristano. Lui sosteneva: «L’importante è che la morte ci trovi vivi» e c’è riuscito. Ma aveva anche scritto: «Affogò perché si vergognava a gridare aiuto». E il sospetto un po’ ci rimane.
Paolo Fallai