Piero Ostellino, Corriere della Sera 25/03/2012, 25 marzo 2012
LE TASSE AUMENTANO E LA CRESCITA NON ARRIVERA’
Il governo continua a promettere «crescita» (o «meno recessione nel 2012»), ma —dopo aver portato la tassazione a un livello anomalo persino per la Corte dei conti e aver fatto ricorso a controlli fiscali inquietanti per il garante della privacy — programma nuove gabelle e/o aumenti delle vecchie, dall’Iva alla casa, e col passaggio di certi tributi agli enti locali più voraci dello Stato centrale. Il guaio è che fra crescita e tassazione c’è un rapporto inversamente proporzionale.
Tanto maggiore è la percentuale del Pil (Prodotto interno lordo) rappresentata dalla pubblica amministrazione, tanto minori sono le possibilità di crescita del Paese. Se il burocrate «pesa» sul Pil più dell’imprenditore o del risparmiatore non si cresce. È sufficiente comparare l’andamento del Pil degli ultimi anni, costantemente in calo, e quello della fiscalità, costantemente in aumento, per rendersene conto.
Né vale, a giustificazione degli aumenti fiscali fatti dall’attuale governo, lo stato di emergenza dovuto alla crisi dei debiti sovrani. Non è vero che non ci fosse alternativa. L’alternativa c’era e si chiama «chi sbaglia paga»; che è, poi, la regola, non (solo) economica, ma (soprattutto) etica del liberalismo. Tutto stava nell’aver chiaro ciò che è una «economia aperta». Se il governo fosse stato fedele al principio che, in un regime di libera concorrenza, ogni operatore — dallo Stato, a una banca, al singolo cittadino — è responsabile delle proprie azioni, e ne paga le conseguenze, saremmo in una economia aperta. Con la redistribuzione delle risorse per via fiscale, a pagare per gli errori compiuti dallo Stato, dalle banche, e da certi (imprudenti) risparmiatori, hanno finito con essere coloro i quali avevano gestito saggiamente il proprio reddito e i propri risparmi.
Davanti al pericolo del fallimento dello Stato e delle banche, e all’esigenza di salvarli per salvaguardare «gli onesti e/o capaci», si è perpetrata una confisca a vantaggio dei «disonesti e/o degli incapaci». Ora sarebbe bene si spiegasse, almeno, che il fallimento di uno Stato non è la sua dissoluzione, bensì segna il passaggio di mano dalla vecchia, che ha sbagliato, a una nuova classe politica; che il fallimento di una banca non è la sua distruzione, bensì si risolve in un cambio di proprietà — qualcuno che la comperi c’è sempre — dal vecchio a un nuovo azionariato e a un nuovo management più onesti e/o più capaci; infine, che le perdite del risparmiatore, dovute a investimenti imprudenti, non sono un disastro naturale come il terremoto, ma — nella cruda definizione di un uomo della sinistra americana, John K. Galbraith — «la separazione dei soldi dai cretini». I quattro gatti liberali avevano ragione; ma, a quanto pare, non lo si vuole ammettere. E si persevera.
Il passaggio dai governi politici al governo tecnico non ha fatto registrare, secondo la mia opinione, un cambiamento di cultura e di prassi politica, dal collettivismo al liberalismo, bensì (solo) da una forma di dirigismo a un’altra...
Piero Ostellino