Antonio Castro, Libero 25/3/2012, 25 marzo 2012
CRUCCHI CON LA MERKEL DEGLI ALTRI
Più che un modello è una chimera. A cominciare dai costi per realizzare il famoso modello tedesco tanto sbandierato e poco pesato nell’impatto economico, formativo, legale e giuridico che comporta e lo accompagna.
Partiamo dai numeri – e dal costo – di un modello che nel suo complesso appare inattuabile per l’Italia. Soprattutto per la limitata disponibilità economica. Tanto per iniziare nel 2010 la Germania ha sborsato 143 miliardi di euro in assegni ai disoccupati, circa la metà dell’intero budget federale. A chi perde il posto di lavoro lo Stato tedesco versa per 18 mesi, o per due anni a chi ne ha già compiuti 58, circa il 70 per cento dell’ultimo stipendio. Retribuzione che cresce a seconda della composizione del nucleo familiare o in assenza del coniuge (fino al 75 per cento per i genitori single con 2 figli). Sulla base delle statistiche più aggiornate circa 3,5 milioni di disoccupati usufruiscono di questi sussidi. Meglio non avventurarsi però nell’analisi dettagliata del sistema i protezione sociale messo in piedi dalla Cancelliera Angela Merkel e dai predecessori. Tanto per far imbufalire gli italiani alle prese con una rete di protezione molto molto vacillante basta ricordare che superato il primo anno e mezzo, scatta per circa 6,7 milioni di persone (2 milioni delle quali bambini e ragazzi sino a 18 anni) il cosiddetto regime Hartz IV: una sorta di paracadute che garantisce la copertura dei costi dell’affitto e del riscaldamento, che tradotto in euro si concretizza in un contributo economico mensile di base pari a 359 euro a persona. Se poi si hanno figli a carico va aggiunto un assegno (di 215 euro) per ogni bambino fino al compimento dei 6 anni; oppure di 251 euro per un bambino dai 6 ai 14 anni; o un massimo di 287 euro dai 14 ai 18 anni.
Impietoso il confronto con l’Italia, anche considerando le promesse future del ministro del Welfare Elsa Fornero: lo scorso anno il sussidio di disoccupazione è costato alle casse pubbliche circa 10,5 miliardi su un totale di 17,9 di ammortizzatori girati ai lavoratori. Poi ci sono i 3,9 miliardi di cassa integrazione straordinaria ed in deroga (2011) e i 2,3 miliardi di sussidio di mobilità. Tenendo conto dei circa 2 miliardi che verranno sganciati con la riforma (1,7, forse 1,8 miliardi secondo le anticipazioni del ministro), si arriva a fatica ad una spesa complessiva di 20 miliardi. Considerando che Berlino ne spende 143 l’anno, si potrebbe archiviare la pratica “modello tedesco” e rinunciarvi per impossibilità di competere. È pur vero che con l’introduzione della riforma del mercato del lavoro – voluta nel dall’ex cancelliere Gerhard Schroeder – nel post riunificazione saltò il tappo ed esplose il deficit della Germania.
E vediamo le regole teutoniche: è previsto il licenziamento individuale e l’accordo tra datore di lavoro e dipendente licenziato (che funziona nel 95% dei casi) attraverso un indennizzo che arriva al massimo ad un mese di stipendio per ogni anno di permanenza in azienda, indennizzo parzialmente coperto dallo Stato. Le aziende tedesche possono infatti ridurre la manodopera a seconda del ciclo economico, e non soltanto in base a crisi industriali, di settore. La battaglia per la competitività, avviata ben prima che la crisi economica globale si trasformasse in un ciclone, ha portato in azienda orari di lavoro più estesi e flessibili ma anche retribuzioni legate ai risultati. In Italia ha fatto andare in tilt gli addetti della Fiat scoprire che un operaio della Volkswagen a febbraio ha incassato mediamente un bonus produttività e risultato di 7.500 euro. Miracolo possibile perché il decantato “modello tedesco” è agganciato indissolubilmente alla cogestione. Vale a dire che sindacati e lavoratori condividono la responsabilità dei risultati dell’azienda.
La cosa che sorprende è che ad oggi – senza neppure tener conto della tanto sventolata riforma Fornero – secondo i dati dell’Ocse, la tutela dei lavoratori è un po’ più rigorosa in Germania che in Italia. In Germania circa il 90 per cento di tutti i conflitti sono risolti in sede di conciliazione.
Antonio Castro