Giusi Fasano, Corriere della Sera 24/03/2012, 24 marzo 2012
«RIVEDO TUTTI QUEI CADAVERI. NON AVREI DOVUTO SPARARE» —
Il vecchio si muove con una stampella, lentissimo. «Ma non è ancora finita questa storia?» chiede quando finalmente arriva alla porta e ascolta le ragioni della visita. No, signor Alfred Störk. Non soltanto non è finita, è appena cominciata... O forse no, ha ragione lui. È cominciata tanto, tantissimo tempo fa, quando era un graduato della Wehrmacht, quando i superiori lo punirono «solo per aver osato chiedere: "Ma perché dobbiamo ammazzare gli italiani?"...».
È una bellissima giornata di sole, a Kippenheim, una trentina di chilometri a nord-ovest di Friburgo. Il vecchio strizza gli occhi verdi e piccoli come per capire meglio fino a che punto può fidarsi. «Va bene» acconsente alla fine, «possiamo parlare, ma arrivo fra un momento». E richiude.
Esclusa la polizia criminale che è venuta a interrogarlo per tre volte, Störk non ha mai raccontato a estranei la sua storia. L’isola greca di Cefalonia, settembre del ’43, l’armistizio, due plotoni d’esecuzione che massacrano «almeno 117» ufficiali e soldati italiani della Divisione Acqui. Il caporalmaggiore Störk e il suo gruppo ne falciano 73, l’altro plotone fa il resto. Adesso, 68 anni dopo, il procuratore militare di Roma Marco De Paolis ha chiesto il rinvio a giudizio per Störk, perché «partecipò materialmente» a una strage «in danno di militari italiani prigionieri di guerra», eccidio «senza necessità e senza giustificato motivo». Gli altri responsabili sono tutti morti. E così Störk si ritrova solo, con i suoi 89 anni appena compiuti, a rispondere di accuse che per la verità non ha mai negato. Lo farà questa volta? O accetterà di scendere nei particolari?
Ci vuole una pausa fra un fiume di silenzio lungo 68 anni e uno di parole che potrebbe travolgerlo. L’ex caporalmaggiore Störk si prende più di dieci minuti e vista dall’uscio quell’attesa sembra un trucco. Non tornerà, viene da pensare. Invece eccolo in tutta la sua lentezza, apre la porta, invita a entrare. «Si sieda, la prego».
Appoggia la stampella al bordo del tavolo e attacca. «È venuto l’avvocato a dirmi che in Italia volete processarmi. Ma io non ci verrò, a quel processo. Dopo tutto questo tempo, che senso ha?». Non che abbia paura del carcere, chiarisce: «Che possono farmi alla mia età, arrestarmi? Io sono vecchio, lo vede?». Per tutta la vita però, lo confessa, non è venuto in Italia perché ha temuto le manette, «ormai è andata così, non ci sono mai stato né mai ci metterò piede. Ma se il processo fosse qui in Germania mi presenterei in aula, è ovvio».
Ecco. Immaginiamo di essere in quell’aula e torniamo al settembre del 1943. «Ho sparato, l’ho sempre detto. Quando ci diedero l’ordine di sparare agli italiani ricordo che dissi all’ufficiale "perché mai dobbiamo fare una cosa del genere?". Solo per aver fatto questa domanda fui punito, dovevo avere la promozione a sottufficiale ma fu stracciata...». Silenzio. Le parole non vengono, Störk aspetta paziente la prossima domanda. «Non capivo e non potevo capire» spiega quando riprende il filo del discorso. «Non sapevo niente dell’armistizio e del fatto che all’improvviso gli italiani erano diventati nemici traditori da abbattere. Per questo mi chiesi il perché di quel massacro. Erano stati alleati fino al giorno prima... io non avevo niente contro di loro». Però non si oppose, niente più di una domanda. «Che potevo fare? Erano ordini. Quello che pensavo io non contava niente. Loro erano prigionieri ed eravamo in guerra. Mi dispiace davvero per tutta quella gente. Ma io dovevo ubbidire. Ero un soldato e avevo vent’anni...».
Entrare troppo nei dettagli è un esercizio che richiede sospiri, mezzi sorrisi per nascondere il fastidio dei ricordi. «Senta qui: mi sono venute le mani fredde» dice il caporalmaggiore Störk che la mente riporta ai suoi ventun’anni (non venti) e davanti a un cumulo di cadaveri. «Alla fine ne ho contati 97» aveva rivelato nella sua prima deposizione. I 73 del suo plotone e alcuni dell’altro per i quali la Procura lo accusa comunque di «concorso morale». Eccoli, quei cadaveri. Riaffiorano da una memoria sepolta dal tempo. «Li rivedo e ci penso sempre, ci penserò fino all’ultimo giorno e già questo per me vuol dire pagare il conto. Quel giorno fu il peggiore di tutto il mio tempo di guerra, molto peggio che sul fronte russo».
Dalle pareti di casa decine di volti sorridono a chissà chi e chissà dove. Il signor Störk sa dire semmai quando. «Mi può passare quella fotografia laggiù?» chiede. E apre l’album della vita. «Ecco, qui è il ’48 quando ci siamo sposati. Qui è dieci anni fa, qui sono io nel ’44...». C’è la moglie Regina («È morta poche settimane fa»), ci sono i nipotini ormai grandi, i figli, i fratelli, gli amici. Ha mai raccontato ai suoi nipoti di Cefalonia? La domanda sembra spiazzarlo. «Sì, sanno quello che c’è da sapere». E che cosa direbbe ai parenti degli italiani uccisi? «Che è stata una cosa ingiusta ma io non potevo disobbedire e disertare, avevo accanto gli ufficiali». Il pensiero torna ai suoi figli e nipoti: «A loro ho detto "a voi non succederà mai ma se dovesse accadere vi prego, non fatelo. Non partecipate mai a un’azione come la mia"».
Se gli chiedi cos’ha imparato dalla guerra, quest’uomo dai capelli bianchi per una volta risponde d’impeto: «Che avrei preferito non essere mai stato un soldato». Se vuoi sapere cos’ha da dire al procuratore De Paolis, invece, ci pensa un po’ su: «Che mi lasci in pace, per favore». E poi un pensiero, un desiderio per Cefalonia: «Vorrei tornarci per rendere omaggio alle vittime. Che ci crediate o no io sono una brava persona».
Giusi Fasano