Carlo Federico Grosso, La Stampa24/3/2012, 24 marzo 2012
L’ intervento legislativo sull’art. 18 approvato dal governo inciderà profondamente sui licenziamenti consentiti
L’ intervento legislativo sull’art. 18 approvato dal governo inciderà profondamente sui licenziamenti consentiti. I sindacati, ed una parte delle forze politiche, hanno posto, come era naturale, l’accento sul tema, delicatissimo, dell’affievolimento dei diritti. C’ è tuttavia un ulteriore profilo che merita una riflessione: l’impatto che la nuova disciplina può avere sull’esercizio della giustizia, e conseguentemente sui costi per imprese e lavoratori, dato che il protrarsi dei processi di lavoro può recare danno ad entrambi. La circostanza che il giudice continui ad essere, in un processo, l’arbitro della legittimità o dell’illegittimità dei licenziamenti è stato considerato (nei giorni scorsi) dal governo una risorsa per i lavoratori: la maggiore flessibilità non avverrà senza regole, si è detto, ed a garanzia del rispetto delle norme ci sarà il presidio, prezioso, dell’autorità giudiziaria, che giudicherà se esistevano, o non esistevano, i presupposti per il licenziamento. In astratto questo ragionamento è ineccepibile. Ma in concreto? La nostra giustizia non è in grandissima salute, e anche se, nel settore della giustizia del lavoro, si rinvengono eccellenze che riescono a chiudere le pratiche giudiziarie in tempi abbastanza accettabili, ma vi sono situazioni diverse, nelle quali si fatica ad arrivare anche soltanto ad una sentenza di primo grato. Come ha riferito l’altro ieri La Stampa , da una recente ricerca condotta su undicimila controversie in materia di licenziamento per giusta causa ex art. 18 (vigente), trattate dai tribunali di Torino, Milano e Roma, è emerso che le disomogeneità fra sede e sede, e addirittura fra giudice e giudice della stessa sede, sono clamorose: in media un processo per licenziamento dura 200 giorni a Torino, 266 giorni a Milano, 429 a Roma, e fra i singoli giudici di quei tribunali le discrasie sono ancora più marcate (da 179 giorni di durata a 693). Che cosa accade in altre sedi giudiziarie, soprattutto in molte sedi periferiche, è d’altronde agevolmente intuibile. Il problema è rilevante, e rischia di diventare drammatico se con la riforma dell’art. 18 il contenzioso dovesse aumentare, e non si provvedesse, nel contempo, ad attrezzare adeguatamente le sezioni dei giudici del lavoro. Bisogna dare atto che il governo non ha ignorato il problema. Nel comunicato stampa diffuso ieri subito dopo l’approvazione del disegno di legge esso ha precisato che, quanto ai costi dovuti all’incertezza che circonda gli esiti dei procedimenti avviati a fronte dei licenziamenti, si è introdotta «una precisa delimitazione dell’entità dell’indennità risarcitoria eventualmente dovuta e si sono eliminati alcuni costi indiretti dell’eventuale condanna», svincolando in tal modo «il datore di lavoro, in caso di vittoria del lavoratore, dalla durata del procedimento e dalle inefficienze del sistema giudiziario»; stabilito che la reintegrazione nel posto di lavoro può essere disposta dal giudice soltanto nel caso di licenziamenti discriminatori o in alcuni casi d’infondatezza del licenziamento disciplinare, ha sottolineato che «negli altri casi, tra cui il licenziamento per motivi economici, il datore di lavoro può essere condannato solo al pagamento di un’indennità» (è stata comunque dedicata, si è precisato, «particolare attenzione all’intento di evitare abusi»); ha infine sottolineato che «è prevista l’introduzione di un rito procedurale abbreviato per le controversie in materia di licenziamenti, che ridurrà ulteriormente i costi indiretti del licenziamento». Quanto al rito speciale, specificamente destinato ad abbreviare i tempi di trattazione delle controversie concernenti i licenziamenti, in astratto va benissimo: la sua introduzione (i cui dettagli saranno individuati di concerto con il ministero della Giustizia), se le sue cadenze saranno ben congegnate, potrà servire ad accelerare (eventualmente) le cause. Speriamo che accada. Rimane, per altro verso, intatto il rischio di effetti nefasti sul terreno dell’incremento del contenzioso, conseguenti alla diversità del trattamento stabilito per i licenziamenti discriminatori e quelli disciplinari (che consentono la reintegrazione), e quelli effettuati per motivi economici (che non la consentono, e per i quali è previsto il solo indennizzo del lavoratore). E’ infatti agevole prevedere che il lavoratore licenziato per motivi economici cercherà comunque di sostenere che il suo allontanamento è avvenuto per motivi discriminatori; mentre il datore di lavoro potrebbe essere tentato di contrabbandare per motivo economico il motivo discriminatorio, o di cercare di privilegiare, a danno degli altri, i lavoratori che considera «meno pericolosi», mantenendo loro il posto o reimpiegandoli in posti diversi da quelli soppressi per ragioni economiche. Se ciò dovesse accadere (o se i lavoratori dovessero anche soltanto sospettarlo) la spinta al contenzioso sarebbe ovviamente fortissima. Il governo si è preoccupato di precisare, a questo punto, che particolare attenzione sarà prestata «all’obiettivo di evitare abusi». Anche qui, in astratto, benissimo. Perché l’intenzione manifestata si traduca in misure efficaci, occorrerà tuttavia che gli strumenti ipotizzati per prevenire abusi e violazioni da parte dei datori di lavoro siano davvero stringenti (descrizione dettagliata delle situazioni qualificabili come giusta causa economica di licenziamento, eventuale costituzione di organismi indipendenti ai quali affidare la valutazione preventiva sull’effettiva esistenza delle ragioni che legittimano l’espulsione dei lavoratori dall’azienda, sanzioni per i datori di lavoro inadempienti, e via dicendo). Non è comunque sicuro che, nonostante le attenzioni, il paventato incremento dei processi dovuto all’aumento della flessibilità ed alla mutata disciplina delle categorie dei licenziamenti consentiti riesca ad essere evitato. Lo stesso governo ha, d’altronde, ammesso questo rischio quando ha indicato la ragione per cui ha ritenuto d’introdurre misure dirette a contenere i costi del datore di lavoro nelle cause: in questo modo, ha detto, si è inteso svincolare tali costi «dalla durata del procedimento e dalle inefficienze del sistema giudiziario», riconoscendo così, palesemente, il possibile fallimento di ogni politica diretta a contenere contenzioso e durata dei processi. Non sarebbe, anche sotto questo profilo, un buon viatico per la nuova disciplina dei licenziamenti che sta per intraprendere il suo difficile cammino nelle aule di Camera e Senato.