Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  marzo 24 Sabato calendario

SQUINZI A LONDRA

FABIO CAVALERA SUL CORRIERE DELLA SERA
LONDRA — «Non ho mai avuto il piacere di parlare con Susanna Camusso, ma spero di incontrarla presto. Lei e la Cgil. E sa perché?». Giorgio Squinzi ha in tasca la designazione alla presidenza della Confindustria e fino alla ratifica nell’assemblea di maggio ogni parola va misurata. «Emma è in carica, le mancherei di rispetto». Però un messaggio al sindacato, e in specifico alla componente più forte, non rinuncia a mandarlo. «Da presidente di Federchimica ho firmato sei contratti collettivi e non ho avuto neppure un’ora di sciopero». Rimarca: «Ho sempre creduto nel confronto, la Cgil ne è sempre stata coinvolta e si è sempre comportata come una delle parti più ragionevoli. Non ho mai avuto problemi a trovare gli accordi, magari più vantaggiosi di quelli firmati senza la Camusso al tavolo. Nessuna preclusione nei confronti della Cgil». Poi un’aggiunta significativa: «E non ho mai licenziato nessuno».
L’occasione per ascoltare il nuovo numero uno di Viale dell’Astronomia e porgli qualche domanda viene nel contesto informale di una festa londinese. Nella capitale britannica si è svolta «Ecobuild», la manifestazione dell’edilizia ecosostenibile con una importante presenza italiana; e Mapei, l’azienda di Giorgio Squinzi, ha tagliato la torta per i 75 anni di vita: era un piccola cosa nel 1937 con pochi dipendenti («la mia foto preferita è del 1952: sono con mio padre e sette operai, ricordo ancora il loro nome»), ne ha oggi 7.500 distribuiti in 59 stabilimenti di 55 Paesi. Fresco del ballottaggio vinto contro il rivale Alberto Bombassei, il neopresidente di Confindustria non ha voluto mancare l’appuntamento.
E, giovedì sera, ha preso l’aereo per il brindisi nello Showroom Domus a Clerkenwell.
Giorgio Squinzi ha affrontato con calma alcuni giornalisti. Il mercato del lavoro, i rapporti con Marchionne e la Fiat, le tensioni all’interno di Confindustria e l’elezione della mattinata sul filo di lana: le idee sono chiare. Il tema del giorno è l’articolo 18. Qual è la sua posizione? «Tocca a Emma parlare. Comunque, sono favorevole alla formulazione che si va delineando e che sia applicato ai dipendenti pubblici. Spero che per il mio insediamento, il 23 maggio, la questione sia chiusa. Una cosa voglio sottolineare: la mia linea politica sarà di continuità con la Marcegaglia. E, in linea generale, non credo che sia l’articolo 18 a bloccare lo sviluppo del Paese. Le urgenze sono altre».
Giorgio Squinzi cita «la burocrazia, la mancanza di infrastrutture, il costo eccessivo dell’energia» come le cose «su cui impegnarsi da subito», e porta ad esempio il caso della British Gas «che dopo tre anni se ne è andata da Brindisi perché non arrivavano i permessi». E non dimentica la criminalità che strozza l’economia del Mezzogiorno. Si mette nella scia di Ivan Lo Bello e Antonello Montante che «hanno fatto molto in questi anni», gli imprenditori (definiti «apostoli nel deserto» dal ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri) che hanno aperto una strada «lungo la quale intendo continuare»: è l’impegno della Confindustria contro la mafia, la camorra, la ’ndrangheta.
Un punto delicato, il rapporto con Marchionne e la Fiat che hanno lasciato Viale dell’Astronomia. Dietro allo strappo c’è la filosofia della contrattazione. Qual è il solco da seguire? «Come ho specificato prima, ho firmato sei contratti collettivi con tutti i sindacati». È controproducente per Giorgio Squinzi che le aziende camminino in ordine sparso. È convinto che il livello nazionale di negoziazione debba esistere. Quanto a Marchionne il discorso è questo: «Dipende da lui rientrare perché è lui che ha sostenuto che, se non avesse vinto Bombassei, sarebbe rimasto fuori. Però sono arrivati segnali, mi vuole incontrare. Sono il presidente di tutti ed è importante avere con noi la più grande industria italiana». Porte aperte, ma il dissenso resta.
Designazione contrastata, quella di Squinzi alla presidenza di Confindustria. È finita 93 a 82. «Pensavo di avere 105 voti, magari di toccare i 120, ma qualcuno ha cambiato idea». E sorride. «Bombassei ha fatto una campagna capillare». Non accetta che lo scambino per il candidato del solo Sud. «Mi ha votato la Lombardia, Milano in testa, con Como, Brescia, Cremona, Mantova, Pavia, Lecco, invece Bergamo era con Bombassei, Varese divisa. Ho preso alcune province del Piemonte. Poi l’Emilia, la Toscana. Sono il Sud? I veneti si sono mossi a modo loro, ma ho conquistato voti ovunque. Al Nord e al Sud, di cui sono fiero». Si è schierata pure l’impresa pubblica. «Sì, Fulvio Conti dell’Enel. E Moretti delle Ferrovie, scontato perché con la questione dei treni in ballo, Montezemolo e Della Valle stavano con Bombassei. Infine l’Eni». Proprio Scaroni, amministratore delegato Eni, ha rivendicato i voti decisivi a favore di Squinzi. Una battuta di replica: «Si sa che le vittorie hanno tanti padri».
Prima della torta per i 75 anni di Mapei, Giorgio Squinzi rivela la telefonata di Mario Monti per i complimenti. «La mia risposta? Che noi ragazzi del ’43 siamo i migliori». Stretta di mano, doppio cincin e basta così.
Fabio Cavalera

***

ENRICO FRANCESCHINI SU REPUBBLICA

ENRICO FRANCESCHINI SU REPUBBLICA

dal nostro corrispondente
LONDRA - È finita 93 voti a 82. La Confindustria non è mai stata così spaccata. Ma Giorgio Squinzi, a Londra per un convegno legato alla sua azienda chimica, il giorno dopo la vittoria non ne fa un dramma. «C´erano due candidati forti», dice incontrando la stampa italiana. «Ci ricompatteremo. Io ero convinto di avere 105 voti sicuri e pensavo di poter arrivare a 120. Evidentemente qualcuno ha cambiato idea».
Si dice che lei abbia preso soprattutto i voti del sud.
«Non è vero. Per me hanno votato Milano, l´Emilia, la Toscana, Roma. I veneti si sono mossi a modo loro. Ma in generale direi che ho preso voti ovunque».
Cosa si aspetta da Marchionne?
«Dipende da lui. Ha sostenuto che, se non avesse vinto Bombassei, sarebbe rimasto fuori, ma sono già arrivati dei segnali da parte sua: mi vuole incontrare. E di sicuro è importante avere con la Confindustria la più importante azienda manifatturiera italiana».
Cosa pensa dei contratti collettivi?
«Da presidente di Federchimica ne ho firmati sei, di contratti collettivi. E non ho avuto neanche un´ora di sciopero. Credo molto nel confronto condiviso».
Anche con la Cgil?
«La Cgil era sempre coinvolta. E per altro era una delle parti più ragionevoli. Non è mai stato un problema trovare degli accordi. Spesso sono risultati anche più vantaggiosi di quelli firmati senza la Camusso al tavolo delle trattative».
E delle aziende poco sindacalizzate che dice?
«Esistono molte aziende in cui la conflittualità è assai bassa. Dove chi guida l´azienda e chi ci lavora sono in sintonia. Lì la rappresentanza sindacale è più blanda. Cosa si deve fare, rinunciare a concludere nuovi contratti con loro?».
E´ inevitabile chiedere il suo giudizio sull´articolo 18.
«Non sono ancora io a doverne parlare, tocca a Emma farlo. In ogni modo la mia linea sarà di continuità con la Marcegaglia. Per me lei è come una figlia. Comunque non credo che sia l´articolo 18 a fermare lo sviluppo del paese».
Cos´è che ferma lo sviluppo del paese?
«In primo luogo la troppa burocrazia. Poi la mancanza di infrastrutture. E il costo eccessivo dell´energia. Su queste cose occorre lavorare. Penso al caso della British Gas che dopo tre anni se n´è andata da Brindisi perché non arrivavano i permessi».
Londra ha appena abbassato le tasse sulle corporation.
«E´ una strada da seguire anche da noi».
Come è diventato quello che è?
«Il primo gioco che mi hanno regalato è stato Il Piccolo Chimico. Non ho mai voluto fare altro. La mia foto preferita è del 1952: io, mio padre e sette operai. Ricordo ancora tutti i loro nomi. La mia filosofia non è cambiata. In vita mia non ho mai licenziato nessuno».
Si è sentito con il presidente del Consiglio?
«Monti e la Fornero sono stati così gentili da chiamarmi».
E lei cosa ha detto a Monti?
«Che noi ragazzi del ´43 siamo i migliori».

ANDREA MALAGUTI LA STAMPA
Nove di sera di giovedì, Clerkenwell, quartiere di architetti nella zona nord di Londra. In uno showroroom della Domus, che ospita la festa per i 75 anni della Mapei - leader mondiale di prodotti chimici per l’edilizia, due miliardi di fatturato e oltre settemila dipendenti Giorgio Squinzi fa la sua prima apparizione da presidente di Confindustria. Era lui contro Bombassei. Ha vinto lui. Di un’incollatura. E negli spazi futuristici di Clerkenwell arriva alla fine di una giornata che lo ha trasformato in uno degli uomini più influenti del Paese.

Non ha l’aspetto di un monarca. Piuttosto di un signore solido, pratico, di buon senso. Dice cose schiette che nell’ormai improponibile divisione tra centrodestra e centrosinistra suonerebbero curiosamente di centrosinistra. Eppure in giro c’è molto champagne, mozzarelle di bufala, una torta in cui le fette sembrano piastrelle per il bagno. Un’orchestrina suona esay-jazz, quando il padrone della Mapei, aggirandosi nel labirinto dei suoi sentimenti con una passione che scivola nell’inquietudine, decide di raccontarsi.

Presidente, è finita 93 a 82, la Confindustria si è spaccata.

«Ci ricompatteremo. Ero convinto di avere 105 voti. E pensavo di potere arrivare a 120. Evidentemente qualcuno ha cambiato idea».

Primi commenti: Squinzi ha preso i voti soprattutto al sud.

«L’ho sentita anch’io questa. Ma non è vera. Per me ha votato Milano, gran parte della Lombardia, l’Emilia, la Toscana, Roma. In generale direi che ho preso voti nel pubblico e nel privato».

Ora si aspetta che Marchionne rientri in Confindustria?

«Dipende da lui. È lui che ha sostenuto che se non avesse vinto Bombassei sarebbe rimasto fuori».

Lo cercherà?

«Sono arrivati segnali da parte sua. Mi vuole incontrare, non ci conosciamo di persona. Lo faccio volentieri. Sarò il presidente di tutti. E di sicuro sarebbe importante avere con noi la più importante industria manifatturiera italiana».

Non crede che se i contratti collettivi perderanno peso perderà peso anche Confindustria?

«Da presidente di Federchimica ne ho chiusi sei. E non ho avuto neanche un’ora di sciopero. Credo molto nel confronto».

Anche con la Camusso?

«Naturalmente. Nei contratti che ho firmato io la Cgil era sempre coinvolta. Ed era una delle parti più ragionevoli. Non è mai stato un problema trovare accordi spesso più vantaggiosi di quelli firmati per i metalmeccanici. E poi c’è dell’altro».

Cioè?

«Non mi pare si possa fare a meno dei contratti nazionali. Esistono aziende in cui la conflittualità è bassa e c’è sintonia tra proprietà e lavoro. Lì le rappresentanze sindacali sono blande. Chi tutela i dipendenti se non gli accordi collettivi?» Le piace la riforma dell’articolo 18?

«Non sono ancora io a doverne parlare. Tocca a Emma farlo. La mia linea politica sarà in continuità con la sua. Comunque non credo che sia l’articolo 18 a fermare lo sviluppo del Paese».

Che cos’è che lo ferma?

«La burocrazia. La mancanza di infrastrutture. Il costo eccessivo dell’energia. Pensate al caso della Brtish Gas che dopo 11 anni se n’è andata da Brindisi perché non arrivavano i permessi».

A sud c’è anche un problema di criminalità.

«In questi anni è stato fatto molto con Lo Bello e Montante. Continueremo così. Quando il nostro Paese viene valutato all’estero il tema non è irrilevante».

Scaroni ha detto che per la sua vittoria sono stati decisivi i voti dell’Eni.

«Non è vero. Ma si sa che le vittorie hanno sempre tanti padri».

Anche Moretti ha scelto lei.

«Lasciatemi fare una battuta: con la questione dei treni in ballo era naturale».

Montezemolo e Della Valle stavano con Bombassei.

«Bombassei ha fatto una campagna molto larga, io meno».

Lei è vendicativo?

«No. Di che cosa poi? Qui c’è solo da lavorare assieme».

Perché se l’Italia è in crisi la sua azienda vola?

«Io ho 59 stabilimenti, ma 50 sono all’estero. Vuole dire tanto. Anche se il cervello resta da noi».

Ha sempre detto: famiglia povera azienda ricca, i soldi li reinvesto. È ancora così?

«Sì. Sono entrato in azienda da ragazzino. E il mio primo gioco è stato il piccolo chimico. Non ho mai voluto fare altro. La mia foto preferita è del 1952. Ci siamo io, mio padre e sette operai. Ricordo il nome di ognuno di loro».

Ricordare il nome di settemila dipendenti è più difficile.

«La filosofia non è cambiata. Non ho mai licenziato nessuno».

Che effetto le fa essere in cima alla montagna?

«Non era un obiettivo. È successo. Credo molto in questa opportunità. Mi piace l’idea di dare una mano al Paese. Anche se per me in fondo è una retrocessione. Fino a ieri ero un cittadino del mondo. Ora mi occuperò molto dell’Italia».

Ha sentito il presidente del Consiglio?

«Sì lui e la Fornero sono stati così gentili da chiamarmi».

Che cosa ha detto a Monti?

«Solo che noi ragazzi del ‘43 siamo i migliori».