Marco Zatterin, La Stampa 23/3/2012, 23 marzo 2012
WÉGIMONT, LA FABBRICA BELGA DEL PERFETTO BAMBINO ARIANO
Il grottesco esperimento è riuscito: l’uomo che racconta la storia ha gli occhi di un azzurro profondo e i capelli un tempo erano biondissimi. «Walter Beausert non è il mio vero nome», confessa. Ha vissuto mezzo secolo prima di capire che non era un orfano come gli altri. Sino agli Anni 90 sapeva d’essere nato tra metà 1943 e il primo gennaio 1944. Dopo una lunga ricerca, ha scoperto che proprio la seconda data era quella in cui era venuto al mondo, in un luogo di atrocità e innocenza, la casa Lebensborn di Wégimont, a dodici chilometri da Liegi. Lui, come molti altri, era un frutto del progetto «sorgente di vita». L’arma delirante con cui il nazismo cercava il segreto della razza ariana perfetta.
In Belgio non lo sapevano, o forse facevano finta di niente. Dopo la guerra, hanno fatto lo stesso in Germania, dove invece le fabbriche dei «bambini perfetti», attrezzate per applicare le teorie eugenetiche professate da Heinrich Himmler, si erano diffuse rapidamente. Con la guerra, irragionevoli succursali spuntarono ovunque nei territori occupati, in Francia, Norvegia, Danimarca, Polonia. Il Terzo Reich, fondato da Adolf Hitler «per durare millenni», sognava un mondo di uomini senza difetti. Voleva plasmare l’universo e riscriverne le regole.
Lo hanno fatto anche a Wégimont, un castello dall’aspetto severo, come piaceva agli architetti del Seicento. Ha un fossato e due torri. Fra la primavera 1943 e l’estate 1944, ha visto venire alla luce una cinquantina di bambini, figli di giovani donne belghe e di soldati tedeschi coi giusti requisiti. C’era anche chi sceglieva la maternità nazista per fede, ma il livello di pressione psicologica è sempre stato pesante. Per alcune era un modo per sfuggire alla durezza dell’occupazione. Altre pensavano solo di salvarsi la vita.
I nazisti celebravano i neonati con un rito battesimale sfarzoso, generalmente all’aperto. A Wégimont avveniva sugli scaloni esterni, una festa di infermiere, dottori e soldati dalle uniformi nere. Gli stessi scaloni dove oggi la domenica saltano allegre famiglie, visto che la tenuta è diventata un parco giochi. Durante la guerra era diverso, c’erano disperazione e violenza, sebbene le madri sapessero di avere una via di uscita: dopo dodici settimane potevano lasciare la creatura e contare sulla massima riservatezza del Reich. Ai bimbi veniva costruita una «vita». Pare siano stati 9 mila in Germania e 12 mila in Norvegia. Il Belgio, dove il dibattito sul collaborazionismo trova sempre ferite mal rimarginate, i numeri sono più bassi. Come il profilo che si è tenuto su questa trama.
Un faro lo ha riacceso un giornalista de L’Express, Boris Thiolay, che in un libro ha svelato le trame del Lebensborn vallone. Sono venuti fuori i nomi, l’orrore e la tristezza. Dopo la guerra quasi tutti i bambini di Wégimont non hanno ritrovato i loro genitori. Così sono stati affidati a famiglie e servizi sociali o rinchiusi negli orfanotrofi del loro Paese, in Germania, Canada, Australia. Qualcuno è stato adottato, molti si sono sentiti dire almeno una volta nella vita che erano i «figli della vergogna».
È capitato anche a Walter Beausert, che oggi afferma di essersi ritrovato. Mostra la foto dei genitori. Lei è Rita, belga, 17 anni quando è rimasta incinta. Lavorava nelle cucine di Wégimont, era ovviamente bionda. Lui è Hans, un caporale della Wehrmacht, che concepisce due figli con la cuoca prima di essere spostato sul fronte russo, essere preso prigioniero, tornare in Germania Est e risposarsi. Walter li ha cercati per tutta la vita. Nel 1994 ha scovato la madre poco lontano, a Spa, e ha chiuso il cerchio. «Non mi ha mai detto quello che speravo - confessa oggi - non ha detto “Sei mio figlio”. Ma non ha smesso un attimo di stringermi il braccio».