Enrico Deaglio La Stampa 23/3/2012, 23 marzo 2012
LA NUOVA SFIDA È EVITARE LA SERIE B
Nell’Italia della frantumazione, in cui le forze politiche e sociali tendono a sbriciolarsi, la Confindustria ha a lungo costituito un’eccezione, riuscendo a rappresentare con efficacia, nel confronto sociale, le anime sempre più divergenti dell’imprenditoria italiana. La designazione alla presidenza di Giorgio Squinzi con pochissimi voti di scarto sull’altro candidato, Alberto Bombassei, non è indizio di insanabili dissensi ma piuttosto della difficoltà, riscontrabile in quasi ogni aspetto della società italiana, di raggiungere il consenso, di pervenire a posizioni veramente condivise.
Si può facilmente constatare un processo di sbriciolamento che interessa la politica come il mondo del lavoro, le realtà territoriali, le categorie, le generazioni e che non genera tanto un «tutti contro tutti» quanto il rapido venir meno di motivi di coesione, una sorta di «nessuno con nessuno». Questo processo sta ora sfiorando la Confindustria, un paio di settimane dopo che il Centro Studi dell’organizzazione degli imprenditori ha confermato il quadro impressionante - purtroppo già noto nelle sue linee generali - di caduta produttiva dell’industria.
L’ attuale produzione industriale si colloca oltre il 22 per cento al di sotto del massimo pre-crisi che risale all’ormai lontano aprile 2008. Quelle che sembravano profezie di sventura sono state superate in peggio dalla realtà di un’economia - non solo italiana, ma più generalmente europea, anche se in Italia si toccano alcune delle punte peggiori - in rapida contrazione strutturale: più si indebolisce, più l’industria, e l’imprenditoria in genere, diventa gracile con il rischio di creare le premesse per ulteriori indebolimenti.
All’organizzazione degli imprenditori, come alle altre parti sociali e alle forze politiche, incombe l’obbligo di uscire da questo circolo vizioso, di rafforzare la tendenza, sinora troppo timidamente manifestata, ad andare oltre alle difficoltà del momento, a disegnare un’ideale «città futura» e a confrontare con quell’ideale, senza pietà e senza falsi pudori, le proprie inadeguatezze attuali. A un’analisi di questo tipo, alcune caratteristiche peculiari dell’imprenditoria italiana appaiono inadeguate ad affrontare non solo l’economia globale ma anche la più vicina, e apparentemente più «facile», economia europea.
Le imprese italiane sono gracili dal punto di vista finanziario e piccole dal punto di vista delle dimensioni; dispongono di un capitale troppo poco distinto da quello personale degli imprenditori e cercano troppo il sostegno delle banche. Mentre mostrano vivacità tecnologica ed eccellenza qualitativa in molti settori della produzione, solo raramente hanno il desiderio di crescere e di sottoporsi al giudizio delle Borse; per mantenere un carattere ostinatamente famigliare diventano perciò vulnerabili, specie nei momenti di passaggio generazionale, ad acquisti esterni. Occorrerebbe riflettere, a questo proposito, sull’ondata, attualmente in corso, di acquisizioni di eccellenti piccole e medie italiane da parte di concorrenti europei ed extra-europei che spesso le svuotano del loro patrimonio tecnologico e trasferiscono altrove la produzione.
Dietro alla caduta del 22 per cento della produzione, insomma, c’è qualcosa di più profondo e di più difficile da combattere della crisi che stiamo dolorosamente attraversando: c’è il pericolo di un degrado permanente del potenziale produttivo del Paese, di un ritorno in serie B dopo oltre cent’anni di serie A. Tale pericolo è reso più evidente dal nanismo italiano in molti settori di punta dei nuovi modi di produzione, come sono quelli legati a Internet, e dallo scarso collegamento che le imprese riescono a realizzare con il mondo della ricerca universitaria, parte integrante e indispensabile del nuovo modo globale di produzione. Forse l’insistenza, che accomuna assai spesso sindacati e imprenditori, sull’importanza della «fabbrica» porta entrambi a trascurare quei settori «non-fabbrica» sui quali altri Paesi stanno costruendo o rilanciando la propria prosperità.
La nuova presidenza di Confindustria dovrà avere questi problemi ben presenti e non certo limitarsi a ricercare una coesione di facciata di associati fortemente assorbiti dai gravi problemi che ciascuno deve singolarmente affrontare. Non è sicuramente evitabile l’interrogativo su quanto rilevante potrà essere il potenziale produttivo italiano in un’ottica mondiale nel giro di cinque-dieci anni; e nella creazione della «città futura» dell’economia italiana non è sufficiente che gli imprenditori avanzino richieste, pur doverose e più che legittime, di innovazioni legislative, fiscali e finanziarie. E’ essenziale che si interroghino anche su ciò che possono offrire al Paese, non solo in termini di progettualità, iniziativa, dinamismo ma anche nella prospettiva di evoluzione dei meccanismi proprietari, di sviluppo e utilizzo delle nuove tecnologie, di nuovi modi di ottenere risorse finanziarie: dei nuovi modi, in altre parole, di essere imprenditori in un mondo che non è certo intenzionato ad aspettarci.