23 marzo 2012
APPUNTI PER GAZZETTA. IL CDM VARA UN DISEGNO DI LEGGE PER RIFORMARE IL LAVORO
REPUBBLICA.IT
ROMA - Il Consiglio dei Ministri ha approvato, "salvo intese", il disegno di legge di riforma del mercato del lavoro. Evitando la decretazione d’urgenza e lasciando aperta la possibilità che il Parlamento possa modificare il testo. La formula "salvo intese" pare sia stata consigliata a Mario Monti dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano 1 nella speranza di stemperare le tensioni delle ultime ore. Tensioni che comunque al capo dello Stato appaiono eccessive. "Non credo che noi stiamo per aprire le porte a una valanga di licenziamenti facili sulla base dell’articolo 18 anche perché bisogna sapere a che cosa si riferisce l’articolo 18", ha detto il presidente. Ma dal Partito democratico arrivano nuovi segnali di impazienza. Da Bersani che dice "sull’articolo 18 si intervenga in Parlamento o le Camere sono inutili". A D’Alema che aggiunge: "Il governo dovrà adeguarsi alla volontà delle Camere". Ieri tanto il premier quanto il ministro del Lavoro Elsa Fornero 2 hanno ribadito che sull’articolo 18 non ci sarà "nessuna marcia indietro", malgrado i malumori, dopo il no secco della Cgil, inizino a serpeggiare
anche nelle altre sigle sindacali.
governo. "Si tratta - si legge in una nota - di una riforma lungamente attesa dal Paese, fortemente auspicata dall’Europa, e per questo discussa con le parti sociali con l’intento di realizzare un mercato del lavoro dinamico, flessibile e inclusivo, capace cioè di contribuire alla crescita e alla creazione di occupazione di qualità, di stimolare lo sviluppo e la competitività delle imprese, oltre che di tutelare l’occupazione e l’occupabilità dei cittadini. Il disegno di legge è il frutto del confronto con le parti sociali. Ne emerge una proposta articolata che, una volta a regime, introdurrà cambiamenti importanti".
I sindacati. "Il governo ha deciso per un ddl e questa è una buona notizia, perchè avremo tutto il tempo per affrontare il problema. Faremo un’azione di lobbying sul Parlamento perchè si trovino soluzioni più vantaggiose per i lavoratori" annuncia il segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni. Che aggiunge: "Per l’articolo 18 speriamo sia finito il furore ideologico".
Le modifiche a questo punto "saranno approvate dal Parlamento", quindi la Uil rivolgerà "l’appello per le modifiche ai gruppi parlamentari" dice il segretario Luigi Angeletti. In particolare "vogliamo che si eviti che nei licenziamenti per motivi economici possano in maniera fraudolenta rientrare le casistiche che avevamo blindato cioè disciplinari e discriminatori".
L’intervento del Colle. "Il problema più drammatico - dice Napolitano parlando a margine della cerimonia alle Fosse Ardeatine - sono le crisi aziendali, le aziende che chiudono, i lavoratori che rischiano di perdere il posto di lavoro non attraverso l’articolo 18 ma per il crollo di determinate attività produttive. Bisogna puntare soprattutto a nuovi investimenti, nuovi sviluppi e nuove iniziative in cui possano trovare sbocco soprattutto i giovani". Poi, tornando sul testo al vaglio del Consiglio dei ministri, Napolitano ha concluso: "Noi andremo a una discussione in Parlamento, si confronteranno preoccupazioni e proposte e sono convinto che si arriverà a un risultato di cui si potranno riconoscere meriti e validità perché era una riforma da fare".
Promette battaglia il Pd. "Sono sereno che sull’articolo 18 si vorrà ragionare altrimenti chiudiamo il Parlamento e così i mercati si rassicurano", dice un caustico Pier Luigi Bersani. "Molte cose di questa riforma del lavoro le appoggiamo, altre no. Ma sia chiaro - precisa - che quando si arriverà al dunque il Partito Democratico starà dalla parte dei lavoratori". "Non si può concepire che per i licenziamenti economici ci sia solo la monetizzazione, è il punto base altrimenti entriamo in un film che non è nostro, non è europeo ma americano - prosegue il leader del Pd - Tutto il mondo dice che le cose funzionano meglio in Germania, quali mercati possono obiettare se anche noi adottiamo il modello tedesco sull’articolo 18?". Prima di lui era stato fermo anche l’ex ministro degli Esteri Massimo D’Alema. "Una norma pasticciata - aveva avvisato - non serve a nulla, non credo dia nulla all’economia italiana e va corretta, e noi la correggeremo". "Ho fiducia che le persone ragionevoli vorranno correggere questa norma", prosege, sottolineando che "il Parlamento fa le leggi, il governo dovrà adeguarsi alla volontà del Parlamento". "Si tratta di migliorare una norma - conclude D’Alema - Lo stesso Monti dice che vigilerà contro abusi, vuol dire che è consapevole che sono possibili abusi".
Vendola. E della riforma del mercato del lavoro è tornato a parlare oggi Nichi Vendola, dichiarandosi scettico sulla possibilità di correzioni al testo illustrato mercoledì sera a Palazzo Chigi. "Ha ragione Rosy Bindi quando dice che il governo è forte con deboli e debole con i forti - afferma il leader di Sel - e ha ragione Sergio Cofferati quando dice che se non ci saranno modifiche alla riforma bisogna votare contro". "Sono scettico su questo Parlamento e su questa classe dirigente", conclude Vendola.
Idv. Durissime anche le reazioni dell’Italia dei Valori. "Tra approvare la riforma Monti-Fornero o mandare a casa il governo non vi è dubbio che la cosa più saggia è aiutare i tecnici a fare le valigie e a sbaraccare", sostiene il capogruppo dell’Idv al Senato Felice Belisario.
Casini. "Non ci sarà nessuno scenario particolare, perchè nessuno minaccia di far cadere il governo. Il Pd vuole cambiare alcune parti di queste norme: ha il diritto di farlo, naturalmente il Parlamento si esprimerà, perchè questo Governo non si basa sull’annullamento delle diversità che esistono tra i partiti" minimizza il leader dell’Udc, Pierferdinado Casini.
Lega. "La Banda Bassotti ’Monti, Alfano, Bersani, Casini’ dopo aver ammazzato i pensionati ora vuole accoppare anche i lavoratori, con questa ’marchetta’ fatta ai grandi imprenditori sull’art. 18. Ma stiano attenti, perché da adesso sarà lotta senza quartiere in Parlamento, nelle fabbriche e nelle piazze" afferma in una nota Roberto Calderoli.
Pdl. "La decisione di procedere alla riforma del lavoro con un ddl anzichè per dl è una decisione molto grave che rischia di creare squilibri politici e modificare in peggio il risultato ottenuto su una riforma così importante" dichiara Ignazio La Russa chiedendo ad Alfano e Berlusconi di convocare l’ufficio di presidenza del Pdl.
Verdi. "Stante la situazione attuale non credo che ci siano in parlamento i numeri per modificare i licenziamenti facili del governo Monti - dice il presidente dei verdi Angelo Bonelli - a questo punto va fatta una seria riflessione a partire dal partito democratico sulla necessità di costruire un’alleanza politica nel paese per costruire un’alternativa concreta e di governo".
REPUBBLICA.IT - BERSANI A GENOVA
GENOVA - ’’C’è un momento di straniamento, di sbandamento e grave disagio soprattutto tra gli strati popolari profondamente colpiti dalla crisi. Gli amministratori devono fare i conti con questa situazione e noi dobbiamo anche raccontare la nostra visione, che i nodi sono arrivati al pettine dopo un ciclo economico e politico segnato dalle destre in Italia e in Europa e ci siamo trovati in questo ruzzolone’’. Così il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, ha parlato all’assemblea degli amministratori del partito a Genova. "Per uscire dal baratro ci siamo messi in una situazione durissima, che vedremo a tappe, e bisogna che venga chiarita da dove viene. Sento che il tentativo di accorciare la memoria è in atto e noi non possiamo consentirlo. Se c’è qualcosa da criticare su Monti, noi possiamo farlo, ma il Pdl e la Lega devono stare zitti, non si azzardino a parlare" continua Bersani.
"Se siamo arrivati sull’orlo del baratro, da cui è ora difficilissimo risalire, lo dobbiamo alle politiche della destra - sostiene il segretario -. Tutto ciò che è accaduto è stato colpa di Berlusconi e della Lega, ma anche di un pezzo della classe dirigente". Poi Bersani attacca duramente quanti criticano il Pd da sinistra. "Attenzione giocate con il fuoco, sotto la pelle di questo Paese c’è una cosa pesante - ammonisce Bersani - non si può dare punture di spillo o cercare di azzoppare chi sta tenendo questo Paese".
Il futuro. Il Pd ha
scelto di sostenere il governo Monti "per generosità" nei confronti del paese, ma dal prossimo anno deve tornare la normale "competizione" tra schieramenti alternativi. "In nome dell’Italia abbiamo fatto atto di generosità e sosteniamo questo governo; in nome dell’italia chiediamo che questo paese possa diventare una democrazia come le altre, dove competono due grandi schieramenti e la politica si prende le sue responsabilità" scandisce Bersani.
Amministrative. Alle elezioni amministrative "andiamo convinti, combattivi, ma anche ottimisti". Poi rivolto agli amministratori: "A chi vuole candidarsi io dico che ci sono due cose di cui è impossibile pentirsi: fare un figlio e fare l’amministratore. Potrai dire che fatichi, potrai lamentarti, ma, alla fine, cosa è il potere? E’ avere un’idea e avere qualche probabilità che diventi un fatto; è sapere che tu stai facendo mille cose ma, alla fine, fai sempre qualcosa per qualcuno e lasci qualcosa di tuo alla proprietà indivisa, che è il futuro della tua città, del tuo paese".
Rai. "Non sono sicuro" che il centrodestra "voglia fare le riforme. Non si vuol buttare fuori i partiti dalla rai? Noi usciamo comunque e se la tengano" dice Bersani. Che scherza sulla "fatica" del suo ruolo: "Molti di voi mi dicono: ma chi me lo fa fare di fare il sindaco... Perchè fare il segretario?".
Legge elettorale. La riforma elettorale sarebbe a portata di mano, gli "elementi per farla non mancherebbero", ma non sembra che tutti i partiti abbiano la volontà politica di realizzarla: "Non sono sicuro che si voglia fare. Io dico che se non si fa, noi i parlamentari li sceglieremo attraverso meccanismi di partecipazione".
(23 marzo 2012)
REPUBBLICA.IT - GLI STATALI
ROMA - Sì, no, forse. La possibilità che la modifica dell’articolo 18 decisa dal governo nell’ambito della riforma del mercato del lavoro possa essere applicata anche al pubblico impiego non è chiarissima, soprattutto se si presta attenzione ai commenti rilasciati ieri da diversi esponenti del governo e del mondo sindacale 1.
Dopo un crescendo di battute e polemiche, una parola definitiva sembra essere arrivata con la precisazione serale del ministero della Pubblica Amministrazione che nel sottolineare che le modifiche all’articolo 18 "non riguarderanno gli statali", ha ricordato come il ministro della Funzione Pubblica Patroni Griffi non fosse neppure presente al tavolo della trattativa.
Resta da capire se lo stop del governo, arrivato dopo una imbarazzante confusione che sembra andare di pari passo con le critiche rivolte alla sua comunicazione sulla riforma 2 da un gruppo di illustri giuslavoristi, sia frutto solo di una valutazione di opportunità politica o l’effetto di ostacoli oggettivi di tipo giuridico che ne potrebbero fermare l’estensione anche a fronte di un crescente movimento di opinione.
La Legge 20 maggio 1970, n. 300 contenente "Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e nell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento" (meglio conosciuta come Statuto dei lavoratori) afferma chiaramente che l’articolo 18 si applica "nelle unità produttive con più di 15 dipendenti (5 se agricole); nelle unità produttive con meno di 15 dipendenti (5 se agricole) se l’azienda occupa nello stesso comune più di 15 dipendenti (5 se agricola); nelle aziende con più di 60 dipendenti".
Nessun accenno quindi al settore pubblico, al quale viene però applicato lo Statuto dei lavoratori in base al comma 2 dell’articolo 51 della legge 165/2001 (Testo unico sul pubblico impiego) dove si afferma che "la legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni ed integrazioni, si applica alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti". Un principio ribadito anche da una importante sentenza della Cassazione (la n. 2233 dell’1 febbraio 2007) che ha stabilito come per il recesso del rapporto di lavoro degli impiegati pubblici (e dei dirigenti, a questi assimilati), valgono le stesse norme che regolano il licenziamento dei dipendenti privati con qualifica impiegatizia, ovvero l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, e il diritto alla reintegrazione.
L’applicazione dello Statuto dei lavoratori ai dipendenti pubblici sancito dal Testo unico prevede però una disciplina normativa diversa da quella del settore privato, compresa quella relativa ai licenziamenti. Senza contare che il punto più controverso dell’attuale modifica dell’articolo 18 riguarda il rischio di un’estensione generalizzata dei licenziamenti motivati con ragioni economiche, valutazione tipica del settore privato, ma di difficile interpretazione in quello statale.
Per questo, al netto delle valutazioni di opportunità politica, la migliore fotografia della situazione sembra essere contenuta nella nota diramata nel pomeriggio di ieri dal ministero della Funzione Pubblica per chiarire che "solo all’esito della definizione del testo di riforma del mercato del lavoro si potranno prendere in considerazione gli effetti che essa potrebbe avere sul settore pubblico". E se effetti ci saranno "si valuterà se ricorra l’esigenza di norme che tengano conto delle peculiarità del lavoro pubblico".
Insomma, alla fine la riposta ai dubbi sull’estensione della riforma dell’articolo 18 ai lavoratori pubblici potrebbe non essere né "sì", né "no", bensì "non ancora".
(22 marzo 2012)
CORRIERE.IT - LA RIFORMA IN PILLOLE
Licenziamenti
Il licenziamento potrà avvenire per motivi economici, attinenti all’attività produttiva e all’organizzazione del lavoro. Possono poi esserci i licenziamenti per motivi disciplinari, e per questi il giudice potrà decidere se serve un indennizzo o il reintegro. Per il licenziamento valutato discriminatorio il giudice decide il reintegro
Indennità
La misura dell’indennità in caso di licenziamento sarà decisa dal giudice, per una durata fra i 15 e i 27 mesi. L’Aspi, Assicurazione sociale per l’impiego, entrerà a regime nel 2017 rimpiazzando l’indennità di mobilità. Dovrebbe partire dal 70% per gli stipendi fino a 1.250 euro. Il limite massimo è fissato a 1.119 euro al mese
Precari
Per i giovani precari lo strumento principale d’inserimento diventa l’apprendistato, ma le aziende potranno ricorrervi solo se poi assumono una parte degli apprendisti. Per il lavoro a tempo determinato ci sarà un contributo extra dell’1,4%, in parte recuperabile in caso di stabilizzazione. Stretta sul falso lavoro autonomo in realtà subordinato
Giudice
Il ruolo del giudice resta centrale nelle controversie di lavoro. Sarà infatti il magistrato (salvo ulteriori modifiche) a decidere sulle indennità prevista in caso di licenziamento per motivi economici. Deciderà sull’attribuzione e sull’entità che può andare da un minimo di 15 mesi a un massimo di 27 mesi
Termine
La riforma non elimina ma di fatto disincentiva i contratti a termine attraverso la penalizzazione dell’1,4% di versamenti contributivi in più. Questi in parte potranno essere rimborsati se il lavoratore viene stabilizzato. Alcuni temono che le imprese comprimano i salari netti per finanziare l’1,4% in più di contributi
Ammortizzatori
Resta la cassa integrazione, ma con alcune modifiche. Anche la cassa integrazione straordinaria rimane ma, dice il ministro Elsa Fornero, sarà «ripulita»: non varrà per cessazione di attività e di mobilità. In caso di cessazione di fatto dell’attività dell’impresa, si passa dalla Cig a mobilità e Aspi
Tutele
Fra le tutele inserite spiccano quelle a favore delle donne: viene istituito il divieto di firmare le dimissioni in bianco al momento dell’assunzione. Si inserisce anche la paternità obbligatoria in via sperimentale per tre anni. Le tutele sui licenziamenti sono demandate al giudice: reintegro sui discriminatori o indennizzi in altri casi
Donne
Per le donne arriva una maggiore tutela in caso di maternità. La riforma infatti prevede una stretta sulle dimissioni in bianco che alcune aziende fanno firmare alle lavoratrici assunte. Una condizione illegale che di fatto rende molto rischiosa sotto il profilo lavorativo un’eventuale maternità, che «costringe» le donne alle dimissioni
ENRICO MARRO
La riforma del mercato del lavoro Monti- Fornero segna una svolta nel metodo e nei contenuti (se positiva o meno lo diranno i fatti). Nel metodo perché sancisce la fine della concertazione, che dall’inizio degli anni Novanta ha attribuito ai sindacati un potere di codecisione sulle questioni di politica del lavoro e del welfare. Nei contenuti perché abbatte il totem dell’articolo 18, la norma dello Statuto dei lavoratori del 1970 che garantisce il diritto al reintegro nel posto di lavoro a chi viene licenziato senza giusta causa o giustificato motivo nelle aziende con più di 15 dipendenti.
Una tutela assoluta sancita nella legge al termine dell’«autunno caldo» del 1969, una stagione di lotte sindacali per l’affermazione dei diritti e il miglioramento delle condizioni dei lavoratori in un’Italia profondamente diversa, trainata dal lavoro nelle grandi fabbriche, sia private sia delle partecipazioni statali, in un mondo non globalizzato.
Fin dagli anni Ottanta gli studiosi si sono interrogati sui problemi creati dall’articolo 18. Nel quale, per esempio, si è vista una delle cause del nanismo delle aziende italiane e un ostacolo agli investimenti dall’estero. Ma non mancano anche le critiche di parte sindacale. Già nel 1985 il Cnel, il parlamentino delle parti sociali, approvò un documento preparato dalla Commissione Lavoro, della quale facevano parte figure storiche del sindacato come Boni, Benvenuto e Lama, dove si addebitavano all’articolo 18 «assurde disparità di trattamento», perché «contrappone un’area ristretta di lavoratori iperprotetti a un’area molto più vasta di lavoratori privi di qualunque protezione», quelli delle aziende fino a 15 dipendenti, e si affermava: «L’esperienza applicativa dell’articolo 18 dello Statuto non suggerisce un giudizio positivo sull’istituto della reintegrazione, che nei termini generali in cui è previsto nel nostro diritto non trova riscontro in alcun altro ordinamento ».
La commissione proponeva quindi, guardando anche allora al modello tedesco, di limitare il diritto al reintegro ai soli licenziamenti discriminatori come era previsto (si spiega nel documento) nel testo originario dello Statuto presentato dal ministro del Lavoro Giacomo Brodolini, poi modificato in Parlamento. Per gli altri licenziamenti si suggeriva invece la riassunzione o l’indennizzo a scelta del datore di lavoro. Tutte queste regole il Cnel le proponeva però per le aziende con più di 5 dipendenti.
Ma bisogna arrivare alla fine del 2001 per vedere il primo vero tentativo di riforma, quando il governo Berlusconi approva il disegno di legge delega 848. Che prevede, tra l’altro, la sospensione dell’articolo 18 (sostituzione del diritto al reintegro col risarcimento) in tre casi: per le aziende che escono dal nero; per quelle che, assumendo, superano i 15 dipendenti; quando i contratti a termine vengono trasformati a tempo indeterminato.
La sospensione è sperimentale per 4 anni. Contro questo provvedimento la Cgil e la sinistra ingaggiano una battaglia senza precedenti, che culmina nella manifestazione oceanica della Cgil di Sergio Cofferati al Circo Massimo il 23 marzo 2002, che indurrà il governo a stralciare gli articoli sui licenziamenti. Ancora un governo Berlusconi, nel 2010, prova a intervenire sull’articolo 18, ma in maniera indiretta, con il collegato lavoro del ministro Sacconi che prevede la «clausola compromissoria» con cui al momento dell’assunzione azienda e lavoratore si impegnano a demandare a un arbitro, che decide secondo equità, anziché al giudice le possibili controversie, comprese quelle sui licenziamenti. Ma qui è il presidente della Repubblica Napolitano a intervenire costringendo il governo a far marcia indietro.
Ma passa meno di un anno e, nella manovra di Ferragosto (del 2011) compare l’articolo 8 che autorizza aziende e sindacati a stipulare accordi riguardanti anche le conseguenze del licenziamento (tranne quello discriminatorio) in deroga all’articolo 18. Il provvedimento viene approvato, ma il 22 settembre Confindustria, Cgil, Cisl, Uil e Ugl si impegnano formalmente a non utilizzare l’articolo 8 per quanto riguarda i licenziamenti. L’articolo 18 è salvo. Ma dura poco. A novembre il governo Berlusconi cade. Arriva Mario Monti, che annuncia tra le sue priorità la riforma del lavoro. Il 18 dicembre, nella prima intervista da ministro del Lavoro, Elsa Fornero dice al Corriere che l’obiettivo è combattere la precarietà, allargare la rete degli ammortizzatori, ma che si discuterà anche dell’articolo 18, perché non ci possono essere «totem».
Dopo 42 anni di onorato servizio la norma simbolo dello Statuto va in pensione. E muore il posto fisso
CORRIERE.IT - IL NUOVO ARTICOLO 18
MILANO - Articolo 18, si cambia. Il governo Monti conferma di voler innovare anche intervenendo sulla norma-totem per i sindacati, salvo modifiche del Parlamento. Le norme si applicheranno a tutti, vecchi e nuovi assunti, tranne che al pubblico impiego, per ora.
I discriminatori
Resta intatta la norma che li considera nulli, dunque come mai avvenuti, e continua a valere anche per le aziende sotto i 15 dipendenti. Il licenziamento viene considerato discriminatorio se è determinato da ragioni di credo politico o fede religiosa, dall’appartenenza a un sindacato e dalla partecipazione a attività sindacali. Oppure nella formulazione più recente, in caso di «discriminazione sindacale, politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di età o basata sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali». E ancora, quando è intimato in concomitanza col matrimonio oppure dall’inizio della gravidanza fino al compimento di un anno di età del bambino o dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale e per malattia del bambino. Infine se è determinato da un motivo illecito. In tutti questi casi il giudice ordina la reintegrazione del lavoratore, anche dirigente, nel posto di lavoro indipendentemente dalla motivazione adottata e quale che sia il numero dei dipendenti occupati. È previsto anche il risarcimento del danno attraverso un’indennità commisurata all’ultima retribuzione globale dal giorno del licenziamento al reintegro, e il pagamento dei contributi. Non cambiano nemmeno le norme che consentono al lavoratore di rinunciare al reintegro in cambio di un’indennità.
gli interventi sulla norma-totem dei sindacati, salvo modifiche in parlamento
Nuovo articolo 18: l’indennità non è automatica
Il licenziamento per motivi economici è legato «all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro»
Il ministro del Welfare, Elsa Fornero (Ansa)Il ministro del Welfare, Elsa Fornero (Ansa)
MILANO - Articolo 18, si cambia. Il governo Monti conferma di voler innovare anche intervenendo sulla norma-totem per i sindacati, salvo modifiche del Parlamento. Le norme si applicheranno a tutti, vecchi e nuovi assunti, tranne che al pubblico impiego, per ora.
I discriminatori
Resta intatta la norma che li considera nulli, dunque come mai avvenuti, e continua a valere anche per le aziende sotto i 15 dipendenti. Il licenziamento viene considerato discriminatorio se è determinato da ragioni di credo politico o fede religiosa, dall’appartenenza a un sindacato e dalla partecipazione a attività sindacali. Oppure nella formulazione più recente, in caso di «discriminazione sindacale, politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di età o basata sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali». E ancora, quando è intimato in concomitanza col matrimonio oppure dall’inizio della gravidanza fino al compimento di un anno di età del bambino o dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale e per malattia del bambino. Infine se è determinato da un motivo illecito. In tutti questi casi il giudice ordina la reintegrazione del lavoratore, anche dirigente, nel posto di lavoro indipendentemente dalla motivazione adottata e quale che sia il numero dei dipendenti occupati. È previsto anche il risarcimento del danno attraverso un’indennità commisurata all’ultima retribuzione globale dal giorno del licenziamento al reintegro, e il pagamento dei contributi. Non cambiano nemmeno le norme che consentono al lavoratore di rinunciare al reintegro in cambio di un’indennità.
Bersani: «Norma da cambiare in Parlamento» I disciplinari
Sono tali i licenziamenti intimati per giusta causa (comportamento grave che non consente la prosecuzione del rapporto, come ad esempio i furti o le risse) o per giustificato motivo soggettivo (notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del lavoratore, insomma i «fannulloni»).
In questo caso il governo innova nel senso che tali licenziamenti, qualora il giudice accerti l’insussistenza delle motivazioni del datore di lavoro (l’onere della prova sta al lavoratore), comportano la risoluzione del rapporto di lavoro dalla data del licenziamento e la condanna del datore di lavoro (per le aziende sopra i 15 dipendenti) a un’indennizzo tra le 15 e le 27 mensilità. Il reintegro del lavoratore, così come previsto dall’attuale articolo 18, resta solo per alcuni casi. Si avrà diritto al reintegro, secondo la nuova normativa, qualora il fatto contestato al lavoratore non sia stato commesso o se rientra tra le ipotesi previste dal contratto collettivo. In questi casi sarà corrisposta anche un’indennità risarcitoria e verranno versati i contributi. Il lavoratore potrà chiedere al posto del reintegro l’indennizzo.
Gli economici.
Sono quelli più controversi. Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, altrimenti detto per motivi economici, è sostenuto da ragioni che attengono «all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa». Cioè dalla crisi dell’impresa (sempre sopra i 15 dipendenti), dalla cessazione dell’attività e, anche solo, dal venir meno delle mansioni cui era in precedenza assegnato il lavoratore, se non è possibile il suo «ripescaggio», ovvero la ricollocazione del medesimo in altre mansioni esistenti in azienda e compatibili con l’inquadramento. Finora la normativa prevedeva che tale lavoratore potesse andare dal giudice, se riteneva insussistenti i motivi del licenziamento. Al giudice era preclusa la valutazione sui criteri di gestione dell’impresa, in quanto considerati espressione della libertà di iniziativa economica. Al giudice, insomma, spettava soltanto il controllo circa l’effettiva sussistenza del motivo del datore, sul quale gravava l’onere di provare l’inutilità della singola posizione e l’impossibilità di adibire il lavoratore ad altra collocazione. Fatto sta che se i motivi economici non c’erano, l’attuale normativa prevedeva il reintegro del lavoratore, il risarcimento del danno e la corresponsione dei contributi.
La novità del nuovo testo è che l’inesistenza del giustificato motivo oggettivo, accertata dal giudice, determina solo il pagamento di un’indennità tra le 15 e le 27 mensilità e non più il reintegro. Prima del licenziamento è prevista una procedura di conciliazione in cui il lavoratore è assistito dai sindacati. Se la conciliazione produce la risoluzione consensuale del rapporto, il lavoratore sarà aiutato nel ricollocamento. In caso contrario si andrà dal giudice con le conseguenze già dette. La Cisl e la Uil hanno chiesto che nel testo venga specificato che se nel processo emergono motivi diversi da quello economico, cioè «discriminazioni, abusi, irregolarità nelle procedure o motivi disciplinari», il giudice annulli il licenziamento. Il governo sembra orientato a accettare la formulazione che, qualora il licenziamento rientri sotto la fattispecie disciplinare o discriminatoria, se ne applichi la relativa discliplina.
Antonella Baccaro