Malcom Pagani, il Fatto Quotidiano 22/3/2012, 22 marzo 2012
TONINO GUERRA, IL MAESTRO CHE TI DAVA DEL TU
Via Maggio, la camera con vista sul suo mondo, era quasi il titolo di un film. Dietro un sipario di curve, paesi abbandona-ti, alberi e rocche medievali, c’era il teatro di Tonino Guerra. L’ultima casa di Pennabilli, nel Montefeltro, quella in cui circondato dai gatti, sul divano rosso, sognava di far sfociare il fiume Marecchia nel mare. E l’altra, 40 chilometri più in basso, verso la Rimini di Federico, a Sant’Arcangelo, da raggiungere a tempi alterni, assecondando il declivio sentimentale della valle. Ieri mattina, nell’abitazione sulla piazza principale, senza sorpresa e dopo una lunga veglia popolare,
TONINO Guerra ha detto basta a 92 anni. Dopo più di cento titoli, alcuni da Oscar e decine di libri, fontane, dipinti e bestemmie intervallate da solitarie camminate nelle chiese interrogandosi sull’immanente: “Chiedermi dove si nasconde l’orchestra che muove il gioco è una profonda consolazione”. Bellocchio, Petri, Fellini, Rosi, Monicelli, Angelopoulos, i fratelli Taviani. Le esplosioni di Zabriskie Point ritmate dai Pink Floyd e il Matrimonio all’Italiana di De Sica. Gli universi di Tonino. Ingrandendo il particolare, come nel Blow Up a cui collaborò, la realtà di Guerra appare una macchia. Non si codifica. Non si razionalizza. Non si definisce. Gli sarebbe piaciuto. Come capita a chi non ama le etichette e troppo ha fatto spendendosi cinetico in centinaia di direzioni. Ieri Bellocchio (uno che invecchiando migliora) ha prima evocato: “Zavattini e Flaiano”, poi messo un punto per brevità: “Era un artista”. Non gli de-v’essere bastato. Così ha aggiunto: “In un mondo di gente che pretende di esistere senza essere”. Più per rabbia che per dolore, perché come ha giurato Taviani: “Il pianeta di Tonino” continuerà a girare. Mentre aspettava sereno il momento (“C’è la diffusa convinzione che debba andarmene a breve” ironizzava già tre anni fa) Guerra continuava la battaglia. Scriveva, inaugurava sculture, litigava con i sindaci, salvaguardava il suo Olimpo anche dall’indifferenza degli interlocutori: “Ma non siete commossi, non vedete la magia?”. Un uomo piccolo che immaginava spazi enormi, si arrabbiava per far pace: “Se crei, incazzarsi è normale” e poi, nei dettagli, in preda all’insoddisfazione, rivelava la scena. La disegnava con le mani. Poetava dal nulla: “Qui ci vorrebbe una gallina”.
Gli davano retta tutti. I registi che tra la fine dei ’60 e la metà degli anni 80 si riunirono nel-l’austera setta di Piazzale Clodio a Roma (terrazza piena di cactus, sessioni di sceneggiatura con spine, scatti d’ira e improvvise, soavi gentilezze) per ascoltarlo e prendere appunti utili alla causa. E produttori o attori (qui Antonioni, complice la reale Vitti) che per un tocco di Guerra accettavano di varcare i rossi deserti della metafora e dell’intellettualismo: “Mi fanno male i capelli”. Toni-no era così.
POPOLARE, quasi terrigno nel riproporre i deschi familiari di Fellini con i nonni saggi e sporcaccioni e il seguito sguaiato di gesti, fischi e allusioni: “Mio padre lo chiamavano carnazza, a 107 anni ancora lo faceva” . Elegiaco se sognava una nebbia in cui avvolgere un millennio di storia con Tarkovskij. Nel bianco era nato e al bianco che precede vita, morte e cinema, amava ritornare. La sua zona d’inverno si riempiva di neve e allora Tonino si riscopriva ragazzo. Lo sciroppo di menta nel bicchiere, sul davanzale. Il ghiaccio senza sforzi. La natura. L’espediente. La fantasia. Guerra, nato nel ’19, iniziò a inventare per sopravvivere già nel campo di concentramento di Treisford. I deportati avevano fame e Tonino, figlio di analfabeti , raccontava favole e imbandiva pranzi filosofici a base di tagliatelle. Gli altri ascoltavano e nell’effimero sollievo, chiedevano ancora: “Possiamo averne una seconda porzione?”. Si salvò, mise le paure in fila e pubblicò un libro in dialetto I scarabòcc che gli valse la curiosità di Petri: “Si presentò con il suo produttore: ‘Quanto guadagni come maestro elementare?’. ‘39.000 lire l’anno’ ‘Te ne do 300’. Come una puttana, raggiunsi Roma in un lampo”. Poi la lasciò, avendone traversato la malìa con passo da controllato frequentatore di balera, quando intuì che l’aberrazione quotidiana della pratica tra Cinecittà e la routine, poteva respirare anche fuori dal Grande Raccordo Anulare. Così prese un treno e si diresse dove era sempre stato. In provincia. Lontano dall’apparato (Guerra era comunista e fratello acquisito di Cofferati, ma della nomenklatura del Pci se ne fregava), circondato dalla libertà di non rispondere al telefono o accompagnarti all’uscio in un istante: “Adesso sono stanco, vai pure”. Inseguendo pensieri che non lo trascinassero mai fuori dal cerchio dei desideri. Le rose da curare, la pasta di Zaghini, i versi da comporre, i piatti da colorare, le piazze della sua regione in cui incontrare gli amici di un tempo e stupire ancora, con un’idea, un lampo, un cartone animato. La semplicità che era la vera cifra della sua esistenza. Lo chiamavano “maestro” e lui dava del tu. Poche “pugnette”. Molta concretezza nei rapporti.
I patti chiari. L’amicizia lunga. In seconde nozze, Tonino aveva sposato la rossa e russa Lora, imparato a memoria la lingua, esportato oltre la burocrazia il meglio dell’arte sovietica. Era aperto Tonino. All’interpretazione di un cinema diverso dal suo come alle esperienze e ai linguaggi che apparentemente suonavano estranei. Era curioso, rimpiangeva i viaggi mancati e sublimava l’assenza con la riflessione. Parlava di sé, è vero, innervando il compiacimento con pedagogica generosità. L’idea era quella di lasciare una traccia, un segno, un insegnamento che andasse oltre le medaglie o le onorevoli semplificazioni (l’Omero della civiltà contadina) che Elsa Morante e altri, tra autorità transnazionali e ricevimenti al Quirinale avevano affastellato nei decenni.
MESSE nell’angolo le sigarette e ricollocato il bicchiere a nuova continenza, la metafisica di Guerra si specchiava nel ricordo infantile. In cui smarrirsi e proiettarsi all’epoca in cui si studiava con il ritratto del Duce sulla testa e nelle classi, al ridicolo ordine imposto dall’autorità si rispondeva con la pernacchia: “Signorina posso uscire? Bombo ha fatto una puzza oscena”. Perché Guerra era simpatico. Spiritoso. Felicemente egocentrico. Irritabile. Gli odori, i sapori, il recinto di Tonino. Che si augurava un orizzonte pauperistico e rammentava Visconti per ammantarlo di nuova tunica: “Non indossava mai i vestiti appena comprati: ‘Splendida questa giacca, Luchino’. E lui, distratto: ‘Trovi? ha più di 10 anni’”. Era l’età che non gli avrebbero restituito più. Navigata legando il filo delle suggestioni, rapinando i giornali, plasmando la materia del quotidiano. Ora è finita e gli epigoni sembrano spenti. A piazza-le Clodio c’è ancora Andrea. Il figlio musicista, compositore in più di 60 film. L’ultimo l’aveva scritto Tonino. Sulla dissolvenza a nero la parola fine.