Stefano Feltri, il Fatto Quotidiano 22/3/2012, 22 marzo 2012
FORNERO PIÙ A DESTRA DI B.
Il Pdl quasi non ci crede, a volte le cose vanno meglio di ogni aspettativa: non bastava il Pd spappolato, ora c’è anche un comunista con cui prendersela, Oliviero Diliberto fotografato assieme a una militante con la maglietta “Fornero al cimitero” (“Anche con Marco Biagi cominciò cosi”, ci va già duro Roberto Maroni, Lega, da Facebook). Niente di meglio per blindare la riforma del lavoro, anzi, i pareri raccolti nel confronto con le parti sociali che oggi verrà ufficialmente chiuso. Ma il presidente del Consiglio Mario Monti lo ha già detto martedì: “Sull’articolo 18 la questione è chiusa”.
IL POPOLO DELLE libertà non chiede altro. Silvio Berlusconi tace, Angelino Alfano pure. Se in Parlamento va bene il Partito democratico si spacca a sinistra, se va male riesce a modificare un po’ la riforma del lavoro irritando il governo e mandando in crisi i supermontiani tipo Enrico Letta. “Nessuno ha più diritto di veto. Andiamo avanti con decisione”, freme Maurizio Lupi, del Pdl. Per non parlare di Maurizio Sacconi, ex ministro del Welfare eterno avversario della Cgil, che dice: “Siamo forse prossimi a realizzare l’ultimo miglio, il più faticoso, delle riforme del lavoro di questi anni”. In effetti la riforma Monti per certi aspetti è più drastica di quella tentata da Berlusconi nel 2002, con Maroni al ministero del Welfare: cambiava l’articolo 18, ma soltanto per un periodo sperimentale di quattro anni, risarcimento al posto del reintegro per i licenziamenti indebiti, tranne per quelli discriminatori, deroghe per le trasformazioni da precari a stabilizzati che restavano licenziabili.
MONTI E IL MINISTRO Elsa Fornero vanno molto oltre, questa volta la riforma è strutturale, non un esperimento. E pensare che a dicembre l’economista torinese al Corriere della Sera diceva: “Non ci sono totem e quindi invito i sindacati a fare discussioni intellettualmente oneste”. Poi correggeva: “Il mio era un invito al dialogo senza preclusioni e senza tabù, totem o sacralità intoccabili”. E invece è andata peggio di quello che i sindacati temevano a fine 2011.
“La vera motivazione di questo intervento è modificare i licenziamenti disciplinari, se un’azienda ha un dipendente che ritiene un piantagrane, oggi l’impresa non riesce a liberarsene. Ma l’evidenza dice che in Italia le imprese, quando ne hanno bisogno, licenziano eccome, nella crisi del 1993 per esempio il calo dell’occupazione fu molto netto”, spiega Fabiano Schivardi, economista dell’Università di Cagliari che su lavoce.info è stato molto critico sul luogo comune secondo cui l’articolo 18 condanna al nanismo le imprese italiane che restano sotto i 15 dipendenti.
C’è un piccolo problema, nota Schivardi, nella riforma. Un vizio logico che potrebbe essere utile gancio per il Partito democratico che ha un disperato bisogno di ottenere qualche modifica. In pillole la riforma stabilisce: se il licenziamento è dovuto a ragioni discriminatorie (sesso, religione, razza ecc.) il giudice lo annulla e il lavoratore viene reintegrato. Se la causa è disciplinare e il licenziamento giudicato illlegittimo, spetta al giudice stabilire se il lavoratore viene reintegrato in azienda o riceve un indennizzo (tra 15 e 27 mensilità). Il problema è il terzo caso, quello più sensibile, introdotto dalla riforma, il licenziamento economico individuale. L’azienda licenzia perché dice che non può più permettersi il lavoratore in questione o per “ragioni tecniche o organizzative”, l’interessato ricorre e vince. Il giudice, quindi, stabilisce che il licenziamento economico era illegittimo, ma secondo la riforma Fornero può solo assegnare un indennizzo. Ma questo non è logico: se la causa non era economica, allora deve trattarsi di una delle altre due ragioni, o motivi disciplinari o discriminazioni. E quindi il giudice dovrebbe poter sancire anche il reintegro. Invece non può, e questo espone la legge a rischi di costituzionalità. “La riforma non puo’ essere identificatasolamenteconl’articolo18”, premette Giorgio Napolitano. Il capo dello Stato, tra tutti, sembra quello più ansioso di arrivare in fretta all’approvazione in Parlamento. Ma le tante novità positive che riguardano i precari sembrano interessare poco, sia alla Cgil che ai partiti. Fine degli stage gratuiti dopo la laurea, limite all’uso dei contratti a progetto e a termine, limite di sei mesi per usare le finte partite Iva (formalmente professionisti, di fatto dipendenti), dopo i quali l’azienda è costretta all’assunzione. I precari, elettoralmente parlando, non interessano a nessuno, soltanto Monti dice che tutte le riforme sono rivolte ai giovani. La partita degli ammortizzatori sociali è sospesa: finché il governo non esplicita quanti soldi stanzia per il passaggio dalla cassa integrazione all’Aspi, l’Assicurazione sociale per l’impiego, resta il rebus. Si sta parlando di un aumento della protezione, di spalmare le tutele attuali o di un taglio? Mistero. Ma queste sono quisquilie, ormai. Siamo tornati a 10 anni fa, con l’articolo 18 al centro della scena politica, la Cgil pronta allo sciopero generale, la destra che predica la competizione con la Cina. Unica differenza: questa volta il Pd è nella maggioranza di governo che cancella l’articolo 18.