Paolo Mereghetti, Corriere della Sera 22/03/2012; Paolo Di Stefano, ib., 22 marzo 2012
2 articoli – L’ADDIO A TONINO GUERRA ARTISTA DALLA DOPPIA ANIMA - È morto ieri mattina, nella nativa Santarcangelo, Tonino Guerra, poeta e sceneggiatore romagnolo, collaboratore di grandi registi, da Fellini ad Antonioni, da Rosi ai fratelli Taviani
2 articoli – L’ADDIO A TONINO GUERRA ARTISTA DALLA DOPPIA ANIMA - È morto ieri mattina, nella nativa Santarcangelo, Tonino Guerra, poeta e sceneggiatore romagnolo, collaboratore di grandi registi, da Fellini ad Antonioni, da Rosi ai fratelli Taviani. Era nato il 16 marzo 1920 «I o leggo molti giornali e raccolgo avvenimenti, frasi o racconti che mi interessano, leggo molti libri e guardo che cosa c’è da rubare, appunto quello che mi capita quando viaggio. Ricordo che l’ultima cosa che ho appuntato era che in un viaggio da Roma a Santarcangelo, era marzo, ho visto le colline dell’Umbria bianche; era solo la rugiada e quando è sorto il sole sono rimaste le ombre bianche e io ho distratto un commerciante che stava scrivendo dicendo: "Guardi che cosa straordinaria le ombre bianche!" e lui mi ha detto: "Mò chi se ne frega!". Bisogna appuntare queste cose». Così Tonino Guerra, scomparso ieri a 92 anni, spiegava nel 2004 al critico Giacomo Martini cosa voleva dire scrivere per il cinema: osservare, farsi colpire dalle immagini, non aver paura di stupire o scandalizzare. «Se dovessi insegnare — aggiunse — non direi ormai molte parole, porterei un armadio in una vecchia stanza, qualche vecchia bottiglia impolverata e a tutti direi: "... Dammi queste bottiglie, fammi capire queste bottiglie, dimmi l’anima di queste bottiglie" e basta. È con l’immagine che insegnerei adesso». Anche a rischio di suscitare la facile ironia di chi gli sta davanti, come il commerciante che non voleva guardare le colline bianche. È un pericolo che conosceva bene, lui che aveva scatenato l’ilarità di mezza platea alla Mostra di Venezia quando, in Deserto rosso, fece dire a Monica Vitti che «le facevano male i capelli». Allora le battutacce si sprecarono (anche se veniva da una bellissima poesia di Valeria Cavalli) ma aveva ragione lui. Perché i capelli a volte fanno male davvero e perché nel film quella replica ci stava benissimo. Sceneggiatore di oltre cento film, Tonino Guerra non ha mai tradito le sue idee (e le sue radici romagnole), la sua visione del mondo colorata e poetica, quella capacità di mescolare fantastico e vernacolare, maschere e ricordi, umori sanguigni e sensuali delicatezze. Per questo si erano serviti del suo aiuto registi diversissimi come Antonioni e Fellini, Petri e Tornatore, Tarkovskij e Francesco Rosi, Angelopoulos e Monicelli, i Taviani e Lattuada. Ognuno scavava dentro la sua memoria e la sua fantasia ed estraeva quello che gli serviva, quello che poteva aiutarlo a trovare l’immagine più giusta e la battuta più azzeccata. Perché lui, Tonino Guerra, restava sempre identico a se stesso, al suo mondo e alla sua sensibilità. Alle sue contraddizioni. Se l’era chiesto anche Antonioni come facesse «il primo, l’uomo, a sopportare senza un attimo di tregua la visione del mondo del secondo, il poeta», come fosse possibile che «la carica vitale dell’uno, sanguigna quasi selvatica, si traduca attraverso l’altro in qualcosa di così puramente letterario come le sue opere». E dopo nove film insieme non era stato capace di darsi una risposta. Che in fondo non avrebbe aiutato molto. Antonio, poi Tonino; Guerra era nato a Santarcangelo da una famiglia povera: «Mio padre pescava e friggeva il pesce. Mia madre faceva i cartocci e li riempiva. Poi segnava il prezzo su un quaderno. Ma era analfabeta. Faceva una riga corta se il cartoccio era piccolo, una lunga se il cartoccio era alto e un cerchio quando il cartoccio era pieno». A leggere, alla madre, insegnò il figlio, prima diplomato alle magistrali, poi studente di pedagogia all’Università di Urbino fino a quando nell’agosto del 1944 gli vengono trovati dei volantini partigiani in tasca e viene spedito in Germania, nel capo di concentramento di Troisdorf. Lì comincia a scrivere i primi versi in dialetto, poi raccolte nel ’46 nel libro I scarabcc, prefato da Carlo Bo. Nel 1952, Elio Vittorini gli pubblica nei Gettoni einaudiani La storia di Fortunato ma ben presto la letteratura si intreccia al cinema: l’amicizia con Lorenzo Vespignani porta Guerra a Roma dove conosce Elio Petri, Aglauco Casadio e Giuseppe De Santis. Sono loro che alla fine degli anni Cinquanta lo coinvolgono nelle sceneggiature di Un ettaro di cielo (di Casadio), scritto prima ma uscito dopo La strada lunga un anno di De Santis, per cui aveva già realizzato, con Elio Petri, l’inchiesta alla base di Uomini e lupi. Nel 1960, Tonino Guerra viene chiamato da Michelangelo Antonioni a collaborare alla sceneggiatura di L’avventura. Secondo i critici francesi di «Positif» è proprio lui il responsabile delle atmosfere irrazionali e alienate all’origine dell’«incomunicabilità». Una controprova non è mai esistita, ma tra i due scatta un legame che durerà fino alla morte del regista (con la sola eccezione di Professione: reporter) e grazie al quale abbiamo avuto film epocali come La notte, L’eclissi, Blow Up e Zabriskie Point. Questo legame così forte e coinvolgente non ha frenato la sua collaborazione con registi diversissimi così come non gli ha impedito di offrire la sua faccia alla pubblicità (anche a rischio di sembrare un po’ la caricatura di se stesso). Lavora molto con Elio Petri — L’assassino, I giorni contati, La decima vittima, Un tranquillo posto di campagna — ma non si tira indietro di fronte ai «sandaloni» (Gli invincibili sette e Perseo l’invincibile di Alberto De Martino, Saul e David e I grandi condottieri di Marcello Baldi); inizia la sua collaborazione con Francesco Rosi dal film più eccentrico del regista napoletano, C’era una volta, ma poi la prosegue, tra gli altri, con Uomini contro, Il caso Mattei, Cadaveri eccellenti e Cristo si è fermato a Eboli. Fellini, che conosceva da anni, lo chiama per Amarcord, E la nave va e Ginger e Fred ma è certo che abbia lavorato, senza firmare, anche a Prova d’orchestra e Il Casanova. Lo vogliono i Taviani (La notte di San Lorenzo, Kaos e non solo) e Monicelli (Caro Michele e Il male oscuro), Bellocchio (Enrico IV) e Angelopoulos (Il volo, Paesaggio nella nebbia, Lo sguardo di Ulisse), Lattuada (Bianco, rosso e...), De Seta (L’invitata) e Tornatore (Stanno tutti bene); Tarkovskij (Nostalghia) e Gitain (Golem) a tutti offrendo, come ha detto Angelopoulos, «una fonte meravigliosa a cui attingere, quella della sua memoria, della sua fantasia e della sua creatività». Paolo Mereghetti L’ALTRA DIMENSIONE CIVILE NELLA DUREZZA DEL DIALETTO - I l Tonino Guerra scrittore non è poi così distante dallo sceneggiatore di Amarcord. C’è una coerenza tra questo e quello, ma va ricordato che innanzitutto venne il poeta, la cui prima ispirazione nacque non a caso durante la prigionia nel lager di Troisdorf in Germania: lì Guerra cominciò a scrivere nel vernacolo natio — la stessa variante romagnola, piuttosto aspra e periferica, dei poeti Nino Pedretti e Raffaello Baldini — forse trascinato dalla nostalgia e dal dolore dell’esilio, ma anche spinto da altri prigionieri che gli chiedevano di «sollevarli dal grigiore terribile del quotidiano», di «fare tagliatelle con le parole». «Per tutta la vita sono stato un poeta», ha detto Guerra in una bella intervista di Malcom Pagani, «ho fatto anche altro, ma è stato come travestirsi». La prima raccolta, I scarabócc, esce nel 1946 con la prefazione di Carlo Bo, ricevendo il consenso di Pasolini, che fu tra i suoi primi estimatori e cui si deve la definizione dei paesaggi di Guerra come «luoghi rasi dall’angoscia, fatti anonimi». Il realismo, l’aspetto cronachistico e civile di quelle prove giovanili, sono caratteri piuttosto insoliti nella lirica coeva, e coincidono invece con le contemporanee tendenze narrative. Alla smilza raccolta d’esordio si aggiungono La sciuptèda (1950) e Lunario (1954), che andranno a confluire, tutte insieme, nel volume I bu (I buoi, 1972, con versione a fronte di Roberto Roversi). La durezza del dialetto viene accentuata dallo stile essenziale, dal lessico ridotto, quasi elementare, preciso, aderente agli oggetti e povero di aggettivazione, per restituire un paesaggio naturale e umano arcaico, ripulito di qualunque tentazione idilliaca o patetica, anzi, grazie alla secchezza, caricato di angoscia e di nevrosi: una terra di emarginazione e di povertà, soggetta alla fatica, a una perenne sofferenza, narrata da un narratore esterno in terza persona o da un noi che sottolinea il distanziamento emotivo ma fa emergere ancora di più tutta l’inquietudine e l’angoscia. Fatica, angoscia, durezza sono quelle che Guerra ricordava di aver vissuto da bambino, con genitori analfabeti, che si muovevano da Santarcangelo prima a cavallo poi su una camionetta per vendere frutta e verdura nei paesi vicini. Un realismo sobrio, «crepuscolare e populista, tipicamente romagnolo», l’ha definito Pier Vincenzo Mengaldo: è stato invece Gianfranco Contini, che tra i primi ha apprezzato la poesia di Guerra, a evidenziarne il colore intimista (evocando i conterranei Pascoli e Moretti) e insieme gli accenti più impegnati e la coscienza politica ben radicata nella regione «rossa». In questa «materia esistenziale frantumata ed espressa per intermittenze» (sempre Mengaldo), compaiono vecchi, mendicanti (vècc e pori), mattoidi, bestie malate e distrutte dalla fatica, residui, relitti a margine del latifondo, delle proprietà dei ricchi. Un’umanità che può solo sognare un bagno di sangue come riscatto, e semmai dar sfogo a quel desiderio con il furore verbale. La prima fase poetica di Guerra è caratterizzata da componimenti brevi e metricamente regolari, mentre nel secondo periodo, ben distanziato dal primo dopo le esperienze cinematografiche, si afferma il poemetto con andamento narrativo: siamo già negli anni 80 (Il miele, La capanna, Il viaggio) e il motivo ricorrente è il desiderio di ritornare al paese delle origini con l’illusione di trovarvi un confortante rifugio. Alla componente realistica, si affiancano atmosfere magico-oniriche, già presenti, ma in dosi più lievi, nelle prime raccolte (e poi appunto apparse anche nelle opere cinematografiche, Amarcord in testa): motivi che si coagulano in immagini-chiave, come il polverone turbinoso, il colore bianco della fioritura dei ciliegi, il volo libero delle farfalle. Chi voglia assimilare l’adozione del dialetto all’intento di un’esaltazione campanilistica o al recupero archeologico in chiave erudita, si sbaglia di grosso. Per Guerra, il vernacolo è materia pulsante che si mantiene vitale finché è vivo il mondo che lo veicola. Con risultati meno originali, forse più didascalici e più apertamente sociologici, Guerra si è esercitato, in parallelo, anche nella prosa narrativa: nel ’52 esordisce nel romanzo con La storia di Fortunato (edito nel ’52 nei Gettoni einaudiani), cui segue Dopo i leoni (1956 sempre nei Gettoni), che interpreta, secondo le parole di Vittorini, «l’irrequietezza sentimentale tipica della gioventù senza mestiere e classe del dopoguerra». Altri romanzi verranno (L’uomo parallelo del 1968 mette in scena un io diviso, schizoide, un po’ nel solco di un certo neosperimentalismo), ma il meglio rimane la vena lirica: anche quando viene declinata in prosa, come nei frammenti de Il polverone (1978), o ne I guardatori della luna (1981), breviario di «viaggi sognati, viaggi della mente, viaggi del cuore, viaggi reali» (Roversi). Notevolissimo il ritorno al dialetto, con Il libro delle chiese abbandonate (1988), frammenti di prosa lirica che illuminano per rapidissimi flash luoghi, personaggi, momenti sopravvissuti alla memoria, paesaggi irreali e decrepiti, segnali di vita sepolti nelle rovine. Va infine ricordato che c’è anche un Guerra più avventuroso e picaresco: è quello che, con Luigi Malerba, si è spinto verso la favola comico-surreale, scrivendo a quattro mani sei volumi che hanno per protagonista il cavaliere senza cavalcatura e mercenario disertore Millemosche, deliziose «storie per bambini dagli otto ai novant’anni» ambientate in un Medioevo fantastico. Paolo DI Stefano