Marco Imarisio, Corriere della Sera 22/03/2012, 22 marzo 2012
IL PROF LIBERALE CHE AMA LA MEDIAZIONE —
«Piacere Musy, ma non quello dei gioielli». Il primo incontro è stato come quelli seguenti. Il professore è un uomo a cui piace scherzare, andare d’accordo. Uno di quegli studiosi consapevoli di essere temuti per il loro potenziale soporifero, che reagiscono di conseguenza, cercando di non prendersi troppo sul serio.
In una campagna elettorale vissuta davvero come una vacanza lontano dai salotti e dai convivi intellettuali, si divertiva a definirsi «l’ultimo dei moicani». Alberto Musy appartiene in effetti alla tribù dei liberali, che a Torino può contare su una riserva non esigua. La sua dinastia è molto nota in città, grazie all’omonima ditta che dal 1706 produce preziosi, fornitrice a suo tempo anche di Casa Savoia, ma in comune c’è solo il cognome di origine svizzera e una lontanissima parentela. I suoi avi paterni invece venivano da Napoli, dove un bisnonno esercitava da magistrato, ma con le sue figlie siamo ormai alla quarta generazione torinese.
La scelta liberale non è stata difficile, ce l’aveva in casa. Il padre Antonio, noto avvocato, fu a lungo probiviro del Pli, e nel 1990, a soli 23 anni, Alberto si candidò al Comune nella lista che portava il nome di Valerio Zanone, amico di famiglia e suo padrino, non solo politico. Al comitato elettorale incontrò Angelica Corporandi D’Auvare, studentessa in Lingue e letterature straniere, oggi alla Magneti Marelli come assistente dell’amministratore delegato, lavoro che ha appena ripreso dopo la nascita di Eleonora, l’ultima delle loro quattro figlie.
La prima esperienza politica non fu un trionfo. Musy, già laureato, completò gli studi in diritto a Berkeley, dove rifiutò l’offerta di una borsa di studio per stare vicino alla moglie, che a quel tempo lavorava a Montreal per una holding di gioielli. Ha insegnato in Canada, poi a New York e Tel Aviv, e infine è tornato a Torino per rilevare lo studio del padre, anche se all’attività dello studio «Musy Bianco e Associati» ha sempre preferito la cattedra di diritto privato comparato all’Università del Piemonte Orientale e gli studi del Centro Studi Luigi Einaudi. È il rappresentante degli azionisti della Exor, la cassaforte della famiglia Agnelli, è stato nei consigli di amministrazione di molte società del settore immobiliare, si occupa di cause di lavoro rappresentando quasi sempre le aziende, conosciuto come un avvocato che predilige la mediazione, piuttosto avverso alla pratica del conflitto.
La mitezza non è complimento ma un tratto della personalità. Alberto Musy assomiglia a quei professori sgobboni che si vedono nei film. Alla nascita della sua seconda figlia si presentò in sala parto con il camice verde e un tomo di diritto internazionale sotto al braccio. Si scusò con l’ostetrica dicendo che aveva pensato di ripassare la materia durante il travaglio di Angelica. Fino a poco tempo fa girava per Torino trascinando borse sformate dai libri, la moglie gli ha regalato il Kindle per liberarlo dal conseguente mal di schiena.
La seconda volta in politica è stata appena meglio della prima, ma non troppo. Ci sperava, in un bel risultato, on un 7-8 per cento che avrebbe legittimato le prove tecniche di Terzo polo. La candidatura era arrivata per designazione generazionale, sulla scia di un documento sulla Torino del 2020 frutto delle riunioni al Centro Einaudi. «Il Terzo polo è arrivato quarto» fu la staffilata del sindaco uscente Sergio Chiamparino dopo i risultati elettorali, un magro 4,9 per cento. Musy non è uno sprovveduto di buon carattere, tutt’altro. Ha un progetto. La sua figura rimane centrale nella politica torinese, è l’elemento intorno al quale si sta riaggregando la componente liberale della città, e il Terzo polo resta un approdo al quale spera di infondere un soffio di cultura laica.
Adesso la sua vita, anche quella privata, viene rivoltata alla ricerca del movente. Ogni suo atto politico professionale è riletto in controluce, e il ballatoio sul quale si affacciava per fumare il suo pestilenziale sigaro fuori di casa è diventato una specie di palco sulla scena di un delitto inspiegabile. Nessuno se lo merita, lui e la sua famiglia meno di tanti altri. «Avvocato ci scusi, ma non sapevamo che volesse fare il sindaco» gli disse il suo barbiere dopo le elezioni. «A dire il vero non lo sapevo neppure io» fu la risposta. Almeno sappiamo che tornerà presto ai suoi libroni e alle sue tremende freddure. Per ora conta solo questo.
Marco Imarisio