Silvia Truzzi, il Fatto Quotidiano 21/3/2012, 21 marzo 2012
HO SCRITTO UN RISCATTO, NON VENDO DOLORE - C’è
qualcosa di così scivoloso da maneggiare come il dolore? Alcune sofferenze – l’abbandono, la morte, un amore che finisce, la malattia – sono universali: hanno qualcosa da dire a tutti. Il paradosso del male è che parlarne è difficile perché c’è qualcosa di indicibile, sfacciato, impudico. E poi: il buco della serratura è in agguato, il limen è sottile, labile, soggettivo. Fai bei sogni di Massimo Gramellini è la storia di un addio lacerante, quello di un bimbo di nove anni costretto a salutare la sua mamma. E di una vita trascorsa nel tentativo di scansare i rimpianti, la nostalgia, la rabbia, la mancanza di carezze, i “se le cose fossero andate diversamente”. Sette edizioni in venti giorni, 385mila copie tirate: il romanzo è, oggettivamente, un successo. Al netto delle note gelosie di categoria – l’autore è una firma de La Stampa, giornale di cui è anche vicedirettore – e di un’apparizione televisiva da Fabio Fazio che ha suscitato strali e lodi. Non sapendo bene da quale parte sedesse il torto, ne abbiamo parlato con lui in un’intervista interrotta da telefonate, autografi e qualche occhiata furtiva a una foto in bianco e nero sulla scrivania, dove una bella signora sorride a suo figlio.
Gramellini, il libro è già un
best-seller. Ma è stato anche molto attaccato. Perché non l’ha scritto in terza persona?
Impossibile. Il libro contiene la pagina di giornale con l’articolo sulla morte di mia madre. In cui c’è anche il mio nome. Potevo non pubblicarlo, ma era il perno della storia.
Che differenza c’è tra un romanzo e un’autobiografia?
Nell’autobiografia uno racconta tutta la sua vita: lavoro, amici, amori. Nella prima versione del libro, sbagliando, mi ero dilungato sulla mia educazione sentimentale come se il centro fosse quello. Riscrivendo, l’ho asciugata e ho tentato di guardarla attraverso il filtro del tema del romanzo: la madre. Nessuno si leggerebbe la vita di Gramellini. Ma nella vita di ciascuno di noi c’è un romanzo, cioè una storia con uno strappo, una ricerca e un culmine in cui le tensioni si sciolgono.
Una critica che le fanno è la leggerezza del meccanismo letterario. Come se avesse avuto fretta.
La leggerezza per me è un complimento. Specie in una storia simile. Ho scritto il libro nel luglio scorso. In autunno l’ho riletto e modificato: ho inserito la storia di Salem, il bimbo di Sarajevo. Quella è stata la cosa più difficile, perché è stata l’unica volta nella vita in cui mi sono sentito padre.
Il tema del libro all’incontrario.
Ho cercato di liberarmi di un ruolo che ho sempre impersonato: l’orfano di madre. Nel paese dei mammoni!
Scrivere è una terapia?
Metà delle cose le avevo rimosse. Le sapevo, ma non le avevo più. Le ho dovute ritirare fuori. Come la preghiera del funerale, in cui penso “Signore svegliala, falle un caffè e rimandala qui”, l’avevo dimenticata.
E dopo?
Se dovessi dire un momento in cui mi sono liberato è stato quando ho scritto l’ultimo capitolo. L’ho letto subito a mia moglie e mi sono messo a piangere. Come se il corpo avesse espulso una tossina.
Fazio ha detto che prima di scrivere questo libro lei era un bambino, e scriverlo l’ha fatta diventare adulto. Enfatico o vero?
Ha ragione Fabio. Essere bambini è un guaio della nostra società in generale. Siamo tutti troppo emotivi, spaventati, incapaci di accettare la realtà e i cambiamenti.
Cos’è che lei non accettava?
Che mia madre mi avesse abbandonato, rendendomi “diverso” per sempre. Dentro di me sapevo com’era morta, ma non l’ho mai ammesso. Ho avuto bisogno di vedere un ritaglio di giornale con quel titolo... Ho visto la verità e...
Aspetti: la verità va raccontata sempre?
Non lo so. È una cosa che dovremmo domandarci anche noi giornalisti. A volte sottovalutiamo l’impatto che le notizie hanno. Bisogna essere adulti per ascoltare la verità. Ma è anche vero che finché non la ascolti non diventi adulto.
La sua apparizione da Fazio è stata molto criticata. La cosa più gentile che le hanno detto è “piagnone”.
No, la cosa più gentile è “grazie”. Ma l’hanno detta i lettori, perciò non conta, vero? Collaboro con Che tempo che fa da anni. Mi sentivo a casa, ero troppo rilassato. Un conto è scrivere di un dolore privato (ed è già durissima, comunque), un conto confessarlo davanti a milioni di persone. Sarò sempre grato a Fabio per il modo con cui ha condotto l’intervista. Quando mi ha visto in difficoltà ha improvvisato un monologo di tre minuti e il regista invece di indugiare sulla mia faccia commossa ha staccato.
Vabbè, facile: siete amici...
Sì, ma lui nelle scelte è sempre professionale. L ’altro romanzo che ho scritto – L’ultima riga delle favole – non gli era piaciuto e infatti mica mi ha chiesto di presentarlo in trasmissione.
Lo rifarebbe?
Sì, ma darei più retta a Fabio. Lui voleva parlare del finale. E forse aveva ragione. Qualcuno ha pensato, maliziosamente, che io non lo abbia raccontato per incuriosire il pubblico. In realtà non volevo che il lettore del romanzo fosse avvantaggiato rispetto al protagonista e conoscesse la verità prima di lui.
Che differenza c’è tra questo e la tv del dolore?
Il contesto, il modo in cui se ne parla. Si può parlare e scrivere del dolore a certe condizioni, con un certo stile. Non so se ce l’ho, ma ci ho provato e i lettori me lo riconoscono.
Le hanno anche dato dell’opportunista: un venditore di dolore.
Quando ho cominciato a scrivere la storia ancora non sapevo se l’avrei pubblicata. Mi sono messo lì perché se non superavo questo problema restavo impantanato. Da lì è nato un conflitto tra la vergogna, il pudore, la paura di parlarne e dall’altro la voglia di buttar fuori tutto. Pensavo: ho sofferto come un cane, mi pare di aver trovato una strada per superare il dolore, magari è una cosa utile agli altri.
Riceve molte lettere?
Moltissime e molto affettuose.
Allora è vero che cercava carezze.
Ma no, tutti mi raccontano la loro esperienza. Penso di essere servito a qualcosa.
Guardandola con cattiveria, la storia suona così: lei ha scritto un libro su un’esperienza terribile che sta avendo un grande successo. Non pago, è andato in televisione a presentarlo. Bartezzaghi su Repubblica ha scritto che i libri vengono usati come scusa per andare in tv a parlarne...
Premesso che stimo Bartezzaghi, sono convinto che non abbia letto il libro. Se lo hai letto, capisci che è sincero. Il problema degli intellettuali, anche dei migliori, è che sono tutto testa. E pensano che quel che non è testa sia pancia. Dimenticando che tra la testa e la pancia c’è il cuore. Esiste una differenza enorme fra l’emozione e il sentimento, tra il racconto del dolore e la sua rielaborazione attraverso il perdono. Si esaltano libri pieni di parolacce, volgarità, compiacimento per il male, pensieri cupi. Poi uno scrive la storia del superamento di un trauma e diventa un venditore di dolore? Mah...C’è qualcosa di così scivoloso da maneggiare come il dolore? Alcune sofferenze – l’abbandono, la morte, un amore che finisce, la malattia – sono universali: hanno qualcosa da dire a tutti. Il paradosso del male è che parlarne è difficile perché c’è qualcosa di indicibile, sfacciato, impudico. E poi: il buco della serratura è in agguato, il limen è sottile, labile, soggettivo. Fai bei sogni di Massimo Gramellini è la storia di un addio lacerante, quello di un bimbo di nove anni costretto a salutare la sua mamma. E di una vita trascorsa nel tentativo di scansare i rimpianti, la nostalgia, la rabbia, la mancanza di carezze, i “se le cose fossero andate diversamente”. Sette edizioni in venti giorni, 385mila copie tirate: il romanzo è, oggettivamente, un successo. Al netto delle note gelosie di categoria – l’autore è una firma de La Stampa, giornale di cui è anche vicedirettore – e di un’apparizione televisiva da Fabio Fazio che ha suscitato strali e lodi. Non sapendo bene da quale parte sedesse il torto, ne abbiamo parlato con lui in un’intervista interrotta da telefonate, autografi e qualche occhiata furtiva a una foto in bianco e nero sulla scrivania, dove una bella signora sorride a suo figlio.
Gramellini, il libro è già un
best-seller. Ma è stato anche molto attaccato. Perché non l’ha scritto in terza persona?
Impossibile. Il libro contiene la pagina di giornale con l’articolo sulla morte di mia madre. In cui c’è anche il mio nome. Potevo non pubblicarlo, ma era il perno della storia.
Che differenza c’è tra un romanzo e un’autobiografia?
Nell’autobiografia uno racconta tutta la sua vita: lavoro, amici, amori. Nella prima versione del libro, sbagliando, mi ero dilungato sulla mia educazione sentimentale come se il centro fosse quello. Riscrivendo, l’ho asciugata e ho tentato di guardarla attraverso il filtro del tema del romanzo: la madre. Nessuno si leggerebbe la vita di Gramellini. Ma nella vita di ciascuno di noi c’è un romanzo, cioè una storia con uno strappo, una ricerca e un culmine in cui le tensioni si sciolgono.
Una critica che le fanno è la leggerezza del meccanismo letterario. Come se avesse avuto fretta.
La leggerezza per me è un complimento. Specie in una storia simile. Ho scritto il libro nel luglio scorso. In autunno l’ho riletto e modificato: ho inserito la storia di Salem, il bimbo di Sarajevo. Quella è stata la cosa più difficile, perché è stata l’unica volta nella vita in cui mi sono sentito padre.
Il tema del libro all’incontrario.
Ho cercato di liberarmi di un ruolo che ho sempre impersonato: l’orfano di madre. Nel paese dei mammoni!
Scrivere è una terapia?
Metà delle cose le avevo rimosse. Le sapevo, ma non le avevo più. Le ho dovute ritirare fuori. Come la preghiera del funerale, in cui penso “Signore svegliala, falle un caffè e rimandala qui”, l’avevo dimenticata.
E dopo?
Se dovessi dire un momento in cui mi sono liberato è stato quando ho scritto l’ultimo capitolo. L’ho letto subito a mia moglie e mi sono messo a piangere. Come se il corpo avesse espulso una tossina.
Fazio ha detto che prima di scrivere questo libro lei era un bambino, e scriverlo l’ha fatta diventare adulto. Enfatico o vero?
Ha ragione Fabio. Essere bambini è un guaio della nostra società in generale. Siamo tutti troppo emotivi, spaventati, incapaci di accettare la realtà e i cambiamenti.
Cos’è che lei non accettava?
Che mia madre mi avesse abbandonato, rendendomi “diverso” per sempre. Dentro di me sapevo com’era morta, ma non l’ho mai ammesso. Ho avuto bisogno di vedere un ritaglio di giornale con quel titolo... Ho visto la verità e...
Aspetti: la verità va raccontata sempre?
Non lo so. È una cosa che dovremmo domandarci anche noi giornalisti. A volte sottovalutiamo l’impatto che le notizie hanno. Bisogna essere adulti per ascoltare la verità. Ma è anche vero che finché non la ascolti non diventi adulto.
La sua apparizione da Fazio è stata molto criticata. La cosa più gentile che le hanno detto è “piagnone”.
No, la cosa più gentile è “grazie”. Ma l’hanno detta i lettori, perciò non conta, vero? Collaboro con Che tempo che fa da anni. Mi sentivo a casa, ero troppo rilassato. Un conto è scrivere di un dolore privato (ed è già durissima, comunque), un conto confessarlo davanti a milioni di persone. Sarò sempre grato a Fabio per il modo con cui ha condotto l’intervista. Quando mi ha visto in difficoltà ha improvvisato un monologo di tre minuti e il regista invece di indugiare sulla mia faccia commossa ha staccato.
Vabbè, facile: siete amici...
Sì, ma lui nelle scelte è sempre professionale. L ’altro romanzo che ho scritto – L’ultima riga delle favole – non gli era piaciuto e infatti mica mi ha chiesto di presentarlo in trasmissione.
Lo rifarebbe?
Sì, ma darei più retta a Fabio. Lui voleva parlare del finale. E forse aveva ragione. Qualcuno ha pensato, maliziosamente, che io non lo abbia raccontato per incuriosire il pubblico. In realtà non volevo che il lettore del romanzo fosse avvantaggiato rispetto al protagonista e conoscesse la verità prima di lui.
Che differenza c’è tra questo e la tv del dolore?
Il contesto, il modo in cui se ne parla. Si può parlare e scrivere del dolore a certe condizioni, con un certo stile. Non so se ce l’ho, ma ci ho provato e i lettori me lo riconoscono.
Le hanno anche dato dell’opportunista: un venditore di dolore.
Quando ho cominciato a scrivere la storia ancora non sapevo se l’avrei pubblicata. Mi sono messo lì perché se non superavo questo problema restavo impantanato. Da lì è nato un conflitto tra la vergogna, il pudore, la paura di parlarne e dall’altro la voglia di buttar fuori tutto. Pensavo: ho sofferto come un cane, mi pare di aver trovato una strada per superare il dolore, magari è una cosa utile agli altri.
Riceve molte lettere?
Moltissime e molto affettuose.
Allora è vero che cercava carezze.
Ma no, tutti mi raccontano la loro esperienza. Penso di essere servito a qualcosa.
Guardandola con cattiveria, la storia suona così: lei ha scritto un libro su un’esperienza terribile che sta avendo un grande successo. Non pago, è andato in televisione a presentarlo. Bartezzaghi su Repubblica ha scritto che i libri vengono usati come scusa per andare in tv a parlarne...
Premesso che stimo Bartezzaghi, sono convinto che non abbia letto il libro. Se lo hai letto, capisci che è sincero. Il problema degli intellettuali, anche dei migliori, è che sono tutto testa. E pensano che quel che non è testa sia pancia. Dimenticando che tra la testa e la pancia c’è il cuore. Esiste una differenza enorme fra l’emozione e il sentimento, tra il racconto del dolore e la sua rielaborazione attraverso il perdono. Si esaltano libri pieni di parolacce, volgarità, compiacimento per il male, pensieri cupi. Poi uno scrive la storia del superamento di un trauma e diventa un venditore di dolore? Mah...