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 2012  marzo 21 Mercoledì calendario

PARENTE DISTRUGGE LA CULTURA ITALIANA


Come del resto gli è abituale, quest’ultimo libro di Massimiliano Parente (L’inumano, Mondadori, pp. 277, euro 19) sta a metà strada tra il romanzo e il monologo intellettuale, inteso come occasione per manifestare la sua infinita repulsa di tutto ciò che esiste su questa terra. E figuratevi se io non provo simpatia per uno così, refrattario come sono ai piacioni, ai cantori delle straovvietà, a quelli che accorrono in soccorso delle cause facili facili e care ai babbei, a quelli che scrivono un libro sulla propria madre morta e che si commuovono nel momento in cui lo stanno presentando in tv.
E tanto più che Parente lo conosco dal suo nascere come scrittore, una dozzina e passa di anni fa. Ne sono anzi in qualche modo responsabile perché fin dal suo primo libro (Incantata o no che fosse, Es, 1998) mi sono speso dove ho potuto a favore del suo talentaccio, del suo umore nero più dell’inchiostro, del suo anticonformismo intellettuale, delle sue ossessioni sessuali che non sono mai di troppo in un Paese di bigotti e di professionisti dell’ipocrisia. E poi c’è che Parente nello scrivere ha tocco e piglio. Stai leggendo una sua pagina che non ne puoi più dalla noia, ed ecco che alla pagina seguente scoppi a ridere ad ascoltare una sua tirata a favore delle tette siliconate di Nicole Minetti o contro il prototipo della giornalista addetta ai servizi culturali.
Non sto a dirvi in che cosa esattamente il libro consista, anche perché io stesso non ne sono sicuro. Posso dirvi che Parente il quale di per sé non è un tipino conciliante, come molti di voi sanno per avere letto in passato sulle colonne di questo giornale i suoi articoli che traboccano di zolfo, s’è dato e ha costruito in questo simil-romanzo un personaggio centrale che è una specie di Parente al quadrato. Uno scrittore, va da sé. Uno che odia il mondo letterario più di ogni altra cosa al mondo e che pure si accinge a scrivere un libro destinato al Premio Strenna.
Uno che odia le donne ma che si masturba allo stremo nel pensarle e nell’immaginarle. Uno che «vomita» tutta la letteratura la più alta e celebrata, e laddove il Parente in carne e ossa ha scritto un bellissimo libro su Marcel Proust, a mio modesto avviso il suo libro più bello (L’evidenza della cosa terribile, Cooper, 2010). Uno che pur di compiere una malefatta – tra le tante – si mette a vendere su e-Bay un cappello spacciandolo come appartenuto a Michael Jackson, e per giunta a un bambino down pazzo di amore e di feticismo per lo showman americano. Uno che la notte si mette a fare numeri di telefono a caso nella speranza che risponda una voce femminile e poterla adeguatamente molestare. Insomma un personaggio orrifico. E anche questo va bene. Ciascun scrittore ha il suo pieno diritto di scegliersi il chiavistello che vuole ad aprire la porta del mondo per come vuole raccontarlo.
Detto questo il libro ha i pregi e i difetti del suo ultimo romanzo, le immani 500 pagine che avevano per titolo Contronatura e che Bompiani aveva edito nel 2008. E mi sembra di ieri la telefonata tra me e Massimiliano in cui lui si spiacque di quel mio giudizio su un libro di cui era orgogliosissimo e che nemmeno morto avrebbe amputato di un punto e virgola. Tra parentesi credo sia stata l’ultima telefonata tra noi, e questo perché Massimiliano del suo orgoglio ne fa una religione. Ciò che è assieme una forza e una debolezza.
È una forza quando gli permette di assestarsi su rocce scomode su cui batte il vento, e lui su quelle rocce sta e resiste. È una forza quando si tratta a prendere a calci in culo i vezzi e i luoghi comuni del radical chic, come aveva fatto nel suo libro penultimo (La casta dei radical chic, Newton Compton, 2010). È una forza quando Parente si inerpica a mani nude sulle vetrate che proteggono alcune mitologie della nostra epoca.
Ad esempio, in questo L’inumano, una pagina esemplare contro le nenie filopasoliniane che fanno da apologia di un Pasolini non è mai esistito, una pagina che va letta per intero. «Solo in Petrolio, nel libro postumo, Pasolini esprime se stesso [...] Solo nel capitolo intitolato «Il pratone della Casilina», dove notoriamente fa un pompino dietro l’altro a giovani operai. Ma per scrivere quel capitolo, e esprimere la sua ossessione, ha avuto bisogno di edificarci attorno un’immane costruzione politico-complottitica, per sentirsi giustificato nelle proprie erezioni a priori e riempirle a posteriori di marxismo e sperma annacquato dall’ideologia. È per questo che gli intellettuali italiani hanno rimosso i pompini di Pasolini e continuano a parlare di delitto di Stato, delitto politico, delitto civile, per sminuire Pasolini portandolo alla loro altezza». E Parente voleva dire «alla loro bassezza», alle loro ovvietà.
Questo dal lato della forza. Dal lato della debolezza, e lo dico nel modo più amicale nei confronti di Parente, il libro è zeppo di diramazioni e vie traverse che non aggiungono nulla al racconto e ai suoi intenti. Io fossi stato l’editor di quel libro, ne avrei tolte cento pagine abbondanti. Non vi dirò quali nemmeno sotto tortura. Lo so che nell’editoria odierna non si fa più. Peccato. Quando Ezra Pound fece da editor del primo e capitale libro di poesie di Thomas Stearns Eliot, gliene tolse poco meno della metà. Ed era Eliot, uno dei giganti della poesia del Novecento.

Giampiero Mughini