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 2012  marzo 21 Mercoledì calendario

MITRAGLIETTA E LA 7 NANA


«Perde ascolti persino il grande Santoro» mi dice un amico, «e vuoi che non ne perdano i piccoli Santorini messi in orbita da Stella?». Lo guardo stupito: «Scusa, ma chi è questo Stella?». L’amico replica ironico: «Lo si vede anche dalla tua domanda che sei rimasto un uomo della carta stampata. Sto parlando di Giovanni Stella, nato a Orvieto, 64 anni compiuti in gennaio, amministratore delegato di TelecomItalia Media, il gran capo della Sette, detto Er Canaro». «Perché lo chiamano Er Canaro?». «Perché si è costruito la fama di manager spietato e tagliatore di teste. Si era presentato così appena arrivato alla Sette. Nel giugno 2008 la Telecom, proprietaria dell’emittente, lo aveva spedito lì con la missione di cambiare tutto. E di fare della Sette il Terzo polo televisivo, in grado di dichiarare guerra ai due colossi della Rai e di Mediaset. Molti erano convinti che ce l’avrebbe fatta. Ma oggi sembra arrivato il suo 8 settembre».
L’8 settembre del dottor Stella e della Sette sta sulle gazzette di carta stampata che lo registrano con le malignità destinate ai presunti vincitori sul margine della sconfitta. Per dirla in soldoni, la Sette perde ascolti su ascolti, soprattutto nel campo dell’informazione televisiva, un barometro molto sensibile in un’epoca sempre più dominata dall’antipolitica.
La caduta più pesante sembra quella sul fronte del telegiornale. Repubblica, per la penna di Antonio Dipollina, sostiene che il tigì guidato da Enrico Mentana è sceso al 6 per cento, dopo una fase di successi trionfali che l’avevano portato a superare il 10 per cento. Confesso di non esserne stupito. “Mitraglia” è un bravo televisionista, ma ha un difetto: è sempre stato un tantino presuntuoso, troppo sicuro di se stesso.
Lo si è visto anche nell’intervista concessa ad Antonello Caporale pubblicata lunedì dal quotidiano di Ezio Mauro. “Mitraglia” pontificava sulle sorti della Rai, senza dire una parola sulla bassa marea dei propri ascolti. Ma concludeva con l’arroganza di un vescovo che considera parroci ignoranti i concorrenti: «Dobbiamo sopravvivere alle nostre abitudini, alle nostre stesse regole, inventare nuove forme di narrazione». E proposito dei talk show in crisi anche sulla Sette, recitava da vero paraculo: «È la conferma che con la pigrizia mentale non si va lontano».
No so se l’Auditel sia un misuratore fedele dell’ascolto che raccoglie un programma tivù. Sembra che alla Sette comincino a dubitarne, ma è troppo facile, da veri pigroni mentali, iniziare a farlo quando ti butta male. Preferisco fidarmi delle mie reazioni da spettatore dell’informazione televisiva. E mi dichiaro stanco. Anche del tigì di “Mitraglia”. Il più colpito, anche se non ancora affondato, dalla crisi di fiducia nella casta partitica, diventata inarrestabile.
Mentana aveva costruito il tigì della Sette tutto sulla politica interna. Sembrava una strada virtuosa, diventata un’autostrada negli ultimi mesi di vita del centrodestra di Silvio Berlusconi. Darci dentro era come sparare su una Croce rossa senza ambulanze, senza benzina, senza un pilota meno scombinato del Cavaliere.
“Mitraglia” faceva un tigì d’assalto, impresa persino troppo facile contro un avversario sempre più alle corde. L’avvento del governo tecnico di Monti lo ha messo nei guai. A quali “nuove forme di narrazione” aggrapparsi? Essere pro o contro i professori? Dire o non dire ai propri ascoltatori se erano in grado di salvare l’Italia da un rischio greco? Difendere la vecchia casta dei partiti o abbandonarla al proprio destino?
Forse non ho guardato con attenzione sufficiente il suo telegiornale, ma non ho capito che strada intendesse seguire. Adesso “Mitraglia” non mi rifili la predica più facile: un tigì non deve mai stare con nessuno, la sua ambiguità è la chiave del successo. Sappiamo tutti come gira il mondo dell’informazione, anche di quella televisiva. E conosciamo come è fatto Mentana. È sempre vissuto di politica e accanto alla politica. Mostrando “pigrizia mentale” anche lui non soltanto non va lontano, ma si distrugge.
È quel che sta accadendo a tanti dei talk show della Sette. Confesso che negli ultimi mesi di vita del centrodestra li guardavo con la curiosità di chi si domanda fino a quale livello di faziosità sarebbero arrivati. Sembravano tante sedi distaccate del Supremo Tribunale istituito per processare di continuo e di continuo condannare Silvio il Caimano. Sera dopo sera, assistevo a un film horror a puntate. Con un difetto ogni volta peggiore: la faziosità scoperta, la partigianeria sfacciata, la scelta degli ospiti dettata dall’unico obiettivo di far parlare gli anti-Cav e di mettere alle corde i pro-Cav.
Quando mi sono reso conto che non mi spiegavano nulla della crisi italiana, ma rispondevano soltanto al vizio compulsivo di dare addosso a Berlusconi, ho deciso di non guardarli più. Nello stesso momento mi sono accorto che tanti amici avevano fatto come me. Con un risultato fatale: quando ritieni inutile un programma d’informazione politica, lo annulli premendo un tasto del telecomando. Da quel momento il talk show condotto dalla signora X o dal signor Y inizia a morire ed è molto difficile riportarlo in vita.
Per questo non mi meraviglio nel leggere i dati dei crolli d’ascolto di tanti programmi d’informazione della Sette. E mi stupisco che il dottor Stella tardi così tanto a dimostrare di essere un vero Canaro. Da tempo avrebbe già dovuto obbligare conduttori ed autori a tornare sull’unica strada percorribile. Quella di spiegare ai suoi pochi o tanti ascoltatori che cosa stia accadendo in Italia, quale sorte attenda i partiti politici tradizionali, dove potrebbero emergere figure nuove, leader inediti, progetti da osservare con attenzione.
Che cosa mi spiegano i talk show della Sette, a cominciare dal tigì di “Mitraglia”? Un tubo di niente. E non parlo soltanto delle signore, le Gruber, le Guzzanti, le Dandini, le Bignardi. Anche i maschietti come Lerner, Formigli, Telese, Porro mi sembrano comparse usurate. Oppure, per essere generoso, giapponesi dispersi nella giungla incapaci di comprendere che la loro guerra solitaria è finita. E che bisogna ingaggiare una battaglia nuova, più coerente con la sfide che l’Italia ha di fronte.
Anche l’informazione televisiva ha bisogno di essere all’altezza della crisi che investe l’Europa. E ha un solo modo per dimostrarlo: accettando il confronto con chi non la pensa come i padroni e le padrone dei talk show. Con chi non coltiva le loro fissazioni. Con chi non sta al loro gioco.
Ci riusciranno i nostri eroi delle prime e delle seconde serate? Tutto sommato non è un dilemma che mi faccia perdere il sonno. C’è sempre una partita di calcio per concludere in modo lieve una giornata di lavoro.

Giampaolo Pansa