Diego Gabutti, ItaliaOggi 20/3/2012, 20 marzo 2012
Le previsioni degli economisti non ci beccano quasi mai – Materia oscura della cultura accademica, per alcuni pseudoscienza, per altri mirabile architettura intellettuale, l’economia politica è prima di tutto un genere letterario, come l’utopia (oppure la fantascienza, o la psicologia)
Le previsioni degli economisti non ci beccano quasi mai – Materia oscura della cultura accademica, per alcuni pseudoscienza, per altri mirabile architettura intellettuale, l’economia politica è prima di tutto un genere letterario, come l’utopia (oppure la fantascienza, o la psicologia). Questo non ne fa necessariamente un’opinione infondata e stravagante sulla natura imperfetta del mondo. Né trasforma i rimedi, svariati e volubili, che essa di volta in volta suggerisce ai politici (che talvolta li ascoltano, più spesso no, ma dopotutto è lo stesso) in prediche inutili. Anche Shakespeare è letteratura, ma nessuno prende sottogamba Amleto, Re Lear o Calibano. Già autrice di A Beautiful Mind, o Il genio dei numeri, Rizzoli 2002, una bellissima biografia di John Nash, Nobel per l’economia nel 1994 e psicotico, Sylvia Nasar ripercorre la storia dell’economia politica in un libro che si legge d’un fiato: L’immaginazione economica, Garzanti, pp. 622, euro 30,00. Dalle prime inchieste, sia giornalistiche che letterarie, sulla condizione delle classi lavoratrici nei primi giorni della rivoluzione industriale, in particolare i romanzi di Charles Dickens e il classico di Friedrich Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra, su su fino all’economia etica di Amartya Sen attraverso gli epici scontri su tasse e statalismo tra John Maynard Keynes e Friedrich von Hayek, da un lato i teorici del debito pubblico, dall’altro i tifosi del libero mercato, quella dell’economia politica è una storia appassionante. Sylvia Nasar ce ne restituisce, attraverso le biografie non soltanto intellettuali dei grandi economisti del XIX e XX secolo, il lato per così dire romanzesco, il solo che regga all’usura del tempo (che consuma le idee persino più in fretta di quanto consumi le generazioni umane). Vediamo scorrere, un capitolo via l’altro, le vicende umane e teoretiche d’alcuni tra i più geniali studiosi degli ultimi due secoli: il salto di classe (dal proletariato a Cambridge) di Alfred Marshall, il ruolo di consigliere sia per la destra che per la sinistra (anche estrema) di Joseph Schumpeter, il socialismo ingenuo e aristocratico di Sidney e Beatrice Webb, il puro genio di John Maynard Keynes e gli esaurimenti nervosi della prima donna che occupò una cattedra d’economia a Cambridge: la keynesiana ma anche stalinista di ferro (poi maoista irriducibile) Joan Robinson, che nei primi cinquanta ebbe tra i suoi allievi Amartya Sen, che non le avrebbe mai perdonato, in seguito, le ignobili sciocchezze sulle responsabilità della carestia che provocò in Cina decine di milioni di morti (cause naturali, disse lei, discolpando il partito comunista). Noi abbiamo Mario Monti ed Elsa Fornero: uno porta il loden, l’altra piange, entrambi al servizio dell’Europa e dei mercati. Ma la storia dell’economia ha ben altro da offrire: la volontà di cambiare il mondo per renderlo migliore e studiosi che dedicano a questa chimera intere esistenze. Mentre gli economisti del settecento, che posero le basi dell’economia classica, credevano fermamente «che i nove decimi dell’umanità fossero condannati a una vita di nera miseria e di duro lavoro» e che «il grosso dell’umanità avesse tante possibilità di sottrarsi al suo destino quante i prigionieri d’una colonia penale circondata dal mare d’evadere», Charles Dickens, Karl Marx e i giornalisti inglesi che già nella prima metà del XIX secolo avevano denunciato il degrado della condizione operaia nel paese più avanzato del pianeta, «approdarono all’economia», scrive Sylvia Nasar, «nella Londra vittoriana, durante una vera e propria rivoluzione dei livelli produttivi e di vita. Ad animarli era una visione (_) ricca di speranza. Per loro, quel mare era tutt’al più un fossato. (_) Questi pensatori economici erano spinti non solo dalla curiosità intellettuale e dalla sete di teoria, ma anche dal desiderio di porre l’uomo al timone del proprio destino. [Cercavano] idee da usare per promuovere società caratterizzate da libertà e abbondanza invece che dalla rovina morale e materiale». E le idee (buone, meno buone, cattive e pessime) degli economisti, quasi due secoli più tardi, continuano a fioccare, inarrestabili. Sono propositi che la scienza ha sempre invidiato alla letteratura e che l’economia politica, partecipando d’entrambe, sia dell’esattezza scientifica che dell’immaginazione letteraria, riesce a incarnare senza troppo affannarsi. Non sempre, anzi quasi mai, le sue previsioni risultano centrate, e quando lo sono è più che altro per caso, senza merito né colpa, ma gli economisti non si lasciano scoraggiare da così poco. Inesausti, continuano a interrogare le foglioline di tè dei cicli economici, del pil, dello spread, dei listini di Borsa, una predica inutile (e un rimedio politico più inutile ancora) dopo l’altro.