Roberto Giardina, ItaliaOggi 20/3/2012, 20 marzo 2012
Come si licenzia in Germania – Meno male che c’è l’Europa. Costringe gli italiani a fare quel che non faremmo mai da soli
Come si licenzia in Germania – Meno male che c’è l’Europa. Costringe gli italiani a fare quel che non faremmo mai da soli. Oppure serve da alibi per adottare misure poco gradite e giustificare decisioni apparentemente non necessarie. Ricordate quando, anni fa, ci costrinsero a cambiare le targhe automobilistiche? Al posto delle sigle che indicavano la nostra città, vennero introdotte anonime composizioni di numeri e lettere. Ce lo ordina l’Europa, fu la giustificazione. Davvero? Venite a Berlino: la mia auto, come le altre, porta la B della metropoli. E se vedo circolare un’auto con HH so che viene dalla Hanseatiche Hamburg, la M per Monaco, BN per la vecchia capitale Bonn. E si sta attenti, perché si presume che il guidatore sia poco pratico delle strade. A Parigi per gli stranieri è meno chiaro, ma i francesi si orizzontano subito tra i numeri che corrispondono ai diversi dipartimenti. Penserò male, ma mi chiedo chi ci abbia guadagnato nel cambio di milioni di targhe, assolutamente superfluo, inventato in nome dell’Europa. Oggi si parla di modello tedesco per giustificare la modifica dell’articolo 18. Facciamo come Angela. Peccato che un Deutsches Modell, almeno come ci viene presentato, non esista. Comunque, se si vuole copiare, si dovrebbe prendere il sistema in toto, e non scegliere di volta in volta solo quello che ci fa comodo. In Germania è facile licenziare, si sostiene. Dipende: ci vuole una giusta causa e il datore di lavoro deve seguire una procedura complessa, un po’ come da noi, con diverse lettere di ammonimento se il dipendente non si comporta come dovrebbe. Il motivo addotto può, a volte, anche apparire una sciocchezza ai nostri occhi. Basta guardare una partita alla tv durante l’orario d’ufficio, se non si è stati autorizzati da un capo sportivo come noi. Perfino caricare il cellulare alla presa dell’ufficio potrebbe essere considerato un furto d’energia. Una fedele segretaria è stata licenziata dopo una ventina d’anni di leale lavoro per aver mangiato una polpetta dal buffet preparato per gli ospiti. Il caso finì in tv e, nonostante la cattiva pubblicità, il suo capo insistette: mi sono sentito tradito, è venuta a mancare la fiducia tra di noi. È anche vero che in casi seri la vertenza è rapida e il magistrato non dà sempre ragione al lavoratore per un malinteso buonismo all’italiana. Non è vero che la legge imponga di trattare un risarcimento al posto del reintegro nel posto di lavoro. La commessa di un supermarket, licenziata per aver usato il buono per un vuoto a rendere perduto da un cliente, ha voluto essere riassunta, e così è stato. In caso di licenziamento non regolare, il dipendente ha diritto al suo vecchio posto, ma di solito è lui a rinunciare in cambio di un indennizzo (da ricordare che qui non esiste l’indennità di fine rapporto). Se preferisce andar via, perché anche lui non ha più fiducia nel capo, sa che ha diritto al sussidio di disoccupazione e può legittimamente sperare di trovare un’altra analoga sistemazione, grazie al milione di posti vacanti. Se gli viene offerto lavoro altrove, il trasloco non sarà una catastrofe: trovare una nuova casa a un affitto ragionevole non è un miracolo. In sintesi, è il lavoratore a decidere, non il giudice. Licenziamenti perché la congiuntura è poco favorevole? È vero, qui non esiste la cassa integrazione. Se un’impresa va male, prima o poi chiude, ma dall’inizio del secolo scorso esiste la formula dell’orario ridotto: si lavora meno, si guadagna meno, i contributi passano in parte o in tutto allo Stato, l’imprenditore ha il tempo di attendere tempi migliori, nessuno viene mandato via. Questo sarebbe il modello tedesco, semplice e complesso come tutti i modelli che funzionano. A tutelare i lavoratori cominciarono i conservatori, al tempo di Bismarck. Un particolare che non dovrebbe essere dimenticato.