Fabrizio Salvio, SportWeek 10/3/2012, 10 marzo 2012
Una giornata a casa di Lavezzi: «Napoli, ho bisogno di normalità» – Lo straordinario panorama del Golfo che si gode dalla sua villa a Marechiaro sarebbe affascinante anche in una giornata di pioggia
Una giornata a casa di Lavezzi: «Napoli, ho bisogno di normalità» – Lo straordinario panorama del Golfo che si gode dalla sua villa a Marechiaro sarebbe affascinante anche in una giornata di pioggia. Illuminato dal sole, diventa la traduzione visiva dell’antico proverbio "Vedi Napoli e poi muori". Il problema, per Ezequiel Lavezzi, è riuscire a vederla. Napoli. «Ci sono tanti posti in cui non sono mai stato. Posti che ho qui, a portata di mano, di cui ho solo sentito parlare, o che ho visto in cartolina. Per me, uscire da casa è un’impresa. Una volta sono andato in un negozio Foot Locker a via Chiaia, a comprarmi delle scarpe: mi hanno riconosciuto per strada e inseguito dentro. Alla fine, tra gli scaffali non è rimasto in piedi niente». Dalla sua terrazza a strapiombo sull’acqua, il calciatore argentino abbraccia con lo sguardo la città che lo ha incoronato re e fatto prigioniero. Con simili sbarre, anche questa gabbia, presa in affitto dal regista Pappi Corsicato, assomiglia alla classica prigione dorata. Ma sempre di prigione si tratta. «Vede quella scala di pietra che porta alla spiaggetta là in fondo? Da terra, è accessibile solo a chi vive qua. Da mare, però, chiunque può avvicinarsi. Ecco perché io non scendo mai a fare il bagno. E nemmeno mi affaccio alla finestra: ogni volta, sono urla e richieste di autografi, foto, magliette». Da qui, da questa ammissione rassegnata, parte il viaggio nel mondo privato del Pocho («Una volta per tutte: non vuoi dire "fulmine". È l’abbreviazione del nome del cane che avevo da bambino, Pocholo»). Un viaggio che non può prescindere da quello del calciatore; avviato, a 27 anni da compiere a maggio, verso l’ultimo salto di qualità, certificato dai gol pesantissimi segnati in successione contro Chelsea (due), nell’andata degli ottavi di Champions, Inter e Parma, in campionato. Tra quattro giorni, mercoledì 14, Lavezzi e il Napoli sono attesi – ancora dal Chelsea, a Londra – a un esame europeo che, se superato, aprirebbe prospettive impensabili a inizio stagione. Comunque vada a finire, il Pocho sa che è arrivato il momento di vincere qualcosa, anche perché «oggi gioco più tranquillo», in virtù di una consapevole maturità. Che ci riesca qui, non dipende soltanto da lui, ma anche da quanto il Napoli e la città saranno disposti a offrirgli. Il primo, aumentando gli investimenti sulla squadra. La seconda, diminuendo le pressioni sulla sua persona. E dunque, alla vigilia di giorni caldissimi per la sua carriera, è il momento giusto per guardare dentro di sé, e raccontarsi. Partendo da lontano. Lei è arrivato a Napoli 5 anni fa, ma della sua persona e della sua vita fuori dal campo si continua a non saper molto. Per esempio: com’era il Lavezzi bambino? «Non avevo giocattoli. L’unico è stato il pallone. Giocavo per strada o sui campi in terra battuta. Oggi i bambini hanno meno spazi a disposizione e più pericoli da cui guardarsi. Si abituano a fare altre cose, e certe volte non sanno cosa vuoi dire essere bambini». Com’era la sua città. Villa Gobernador Galvez? «Praticamente un sobborgo di Rosario. Centocinquanta mila abitanti, più o meno, gente umile. Chi ha un po’ di soldi va a vivere a Rosario». Lei ha una fondazione, Ninos del Sur, che aiuta i bambini del posto. «È mio fratello a portarla avanti, l’unica cosa che faccio io è dare dei soldi e tenermi informato sulle attività. Ospitiamo 40 bambini che hanno vissuto in mezzo alla miseria, alla violenza, alla droga. Da noi studiano, fanno sport, sono seguiti da psicologi. Cerchiamo di fargli capire che esistono modelli di vita diversi da quelli cui sono stati abituati». La sua famiglia? «I miei si sono separati quando avevo 2 anni. Mamma lavorava tutto il giorno, usciva alle 7 della mattina e tornava alle 10 di sera. Faceva pulizie nelle case dei ricchi. Sono stato cresciuto dai miei fratelli, un maschio e una femmina più grandi. Non avessi fatto il calciatore? Boh. Non puoi sapere, prima, quali giri prenderà la tua vita. A 16 anni, dopo che il mio primo arrivo in Italia era fallito per problemi burocratici, avevo deciso di mollare col calcio e mi ero messo ad aiutare mio fratello, all’epoca elettricista». Ha sofferto la separazione dei suoi? «Uno capisce certe cose quando diventa adulto. Nel caso dei miei, ho capito che non andavano d’accordo e che quindi era giusto prendessero ciascuno la sua strada. Lo stesso è capitato tra me e la madre di mio figlio Tomas, che soffre per questo. Ma ogni giorno che passa diventa più grande, e ciò lo aiuta a capire». Suo padre viene a vederla giocare? «No. Mai stato a una mia partita. Ha un’altra famiglia, un altro figlio. Ha la sua vita. Ma andiamo d’accordo». Lei ha studiato? «Fino al terzo anno della scuola secondaria (il nostro liceo; ndr). Me ne mancano due per finire». Come ha scoperto il suo talento? «Non è mai successo (ride). Non ho mai seriamente pensato che sarei diventato quello che sono. Mi ci sono trovato per caso, ho avuto anche un po’ di fortuna. Se avessi dovuto scommettere sul mio futuro, il calciatore era la possibilità che avrei dato a meno». E quando ha capito di aver sfondato? «Dopo la stagione nell’Estudiantes, in Argentina, tra il 2003 e il 2004. In estate venni acquistato dal Genoa, e, anche se tornai quasi subito a casa, capii che avrei vissuto grazie al calcio». Che cosa le manca per essere Messi? «Niente, credo. Lui ha le sue caratteristiche, io le mie. E comunque non ho mai cercato di assomigliare o di diventare uguale a un altro. Più che la gloria, io nel calcio cerco altro: imparare tante cose, crescere come persona». A che punto è? «Vivere cinque anni in Italia mi ha fatto crescere tanto sotto tutti i punti di vista. Culturalmente, per esempio. È quello che voglio, più che fare carriera o guadagnare tanto. Il denaro serve, ma la vittoria più importante e difficile da ottenere nella vita è salire nella scala sociale. A me interessa questo. Il calcio non è la cosa più importante della mia vita. Serve a renderla migliore, la mia vita». Oggi crede di essere più rispettato? «Può darsi. Ma innanzi tutto è aumentato il rispetto che io ho di me stesso, ed è ciò che conta. Del giudizio e del rispetto degli altri mi importa meno, perché troppo spesso la gente spara sentenze senza neanche conoscerti. Ho una mia personalità e non la cambio per essere come vorrebbero gli altri. Non riuscirei a vivere». In che senso, sente di essere cresciuto culturalmente? «Non sono uno che si interessa di arte, di pittura. Ma amo viaggiare e conoscere città e persone nuove». I luoghi che le sono rimasti dentro? «Parigi: bellissima. E Barcellona. Anche Napoli è molto bella, ma per noi calciatori è difficile visitarla a fondo». Vuoi dire che, per esempio, non è mai stato a Castel dell’Ovo? «Mai. No, anzi, una volta. Per la presentazione di un motorino (ride). E nemmeno sono stato a Pompei». Ci soffre? «Non è questo. È che vorrei un giorno, uno solo, di normalità. Mi basterebbe. Vorrei uscire per una volta come una persona qualunque, prendere un caffè, fare una passeggiata con la mia donna, portare mio figlio al cinema senza bisogno di camuffarmi. Nascondermi. Scappare». Ma come, non prende il caffè al bar Cimmino in via Petrarca? «Prima, quando abitavo in zona». E non va più, a fare la spesa alla Conad in via Orazio? (sorpreso) «Provvede la signora che aiuta in casa, o il mio uomo di fiducia... Ogni tanto ci penso io, ma a orario di chiusura, quando non c’è quasi nessuno». Però continua a frequentare il Teatro Posillipo, uno dei locali alla moda... «Yanina, la mia compagna, ha diritto a vivere la sua vita. La sera usciamo, ma tante volte neanche mi diverto. È che non so cosa fare. Se resto in un posto 20 minuti, diranno che ci ho passato 2 ore. Se bevo una birra, diranno che sono state 10. Se torno a casa all’una di notte, diranno che ho tirato le 4». Quella volta che Yanina, cui avevano rubato il Rolex per strada, scrisse città de mierda su Twitter, fu lei a convincerla a ritrattare? «No. Tornavo da una trasferta, e lei si era già pentita di questo suo sfogo. E mai si è permessa di chiedermi di andarcene da Napoli. Comunque, quell’insulto sarebbe potuto uscire pure dalla bocca di un napoletano. Uno scippo non è soltanto un furto: è un’offesa, un’aggressione. Ma qui pure i ladri sono tifosi, e certe cose a noi calciatori non succedono spesso». Ma da allora è diventato più prudente, anche nei confronti delle persone che la avvicinano per conoscerla? «Io cerco di non dare confidenza a nessuno. Mi sono però trovato lo stesso in difficoltà (a settembre è stato ascoltato dai magistrati che indagano su imprenditori accusati di riciclaggio, ndr). Ma io non chiedo alle persone di cosa vivono. Cerco di non fare agli altri quello che fanno a me: giudicare senza conoscere». È vero che una volta, ancora ai primi tempi a Napoli, è uscito dall’allenamento nascosto nel bagagliaio della macchina di un compagno? «È vero (ride). Ma avevamo vinto una partita importante, era un giorno di festa. Ti abitui, a vivere così. Non posso dire che sia bello tutti i giorni. C’è la volta in cui sono nervoso e non ho voglia che i tifosi mi vengano addosso per una foto o un autografo. Mi sforzo, ma forse non riesco sempre a fare il simpatico». Ed è vero che Yanina (Screpante, 25 anni, argentina, ex modella) l’ha cambiata in meglio? «Non credo. Sono cresciuto io, e quando uno cresce si rende conto che certe cose che faceva prima erano sbagliate». Per esempio, uscire davvero troppo e fino a tardi, come raccontano? «Io penso che soprattutto quando si è giovani – e io sono arrivato a Napoli a 22 anni – sia normale uscire la sera, come fa qualche mio compagno. Ma io sono il Pocho, e se vado nei locali è un casino; se esco al giovedì, e alla domenica non si vince, la notizia che sono stato fuori fa il giro della città. Se un mio compagno esce il venerdì, e poi non si vince, nemmeno si viene a sapere. Ho imparato perciò che a me certe cose non sono permesse». Dunque, come passa il suo tempo? «Quando posso, mi sveglio il più tardi possibile. Faccio colazione col mate, una specie di tisana alle erbe argentina. Dopo l’allenamento torno a casa: musica – rock ma anche cumbia del mio Paese – pochissima PlayStation... La sera mangio spesso fuori. I miei ristoranti? Il Faretto, Cicciotto, Regina Margherita...». E non scoppia la rivoluzione quando la vedono entrare? «Telefono prima. Passo da un’entratà riservata. E ho una saletta per me. Se resto a casa, cucino lo l’asado, la carne argentina, per amici e compagni di squadra». Suo figlio Tomas che posto ha nella sua vita? «Lo vorrei sempre qui. A maggio compie sette anni. È appena stato a Napoli per una decina di giorni, ma vive con la madre. Secondo gli accordi, posso vederlo tre volte l’anno qui da me, più le volte che vado io in Argentina». Lo sente al telefono ogni giorno? «No. Lui è come me: di poche parole. Certe volte lo chiamo e mi dice; papa, oggi non ho voglia di parlare». Cosa fate, quando siete a Napoli? «Giochiamo tanto a pallone in sala». Che cosa rappresenta, per lei, Diego Armando Maradona? «Quello che è per tutti gli argentini: un idolo». E non si sente ancora pronto a indossare la sua maglia numero "10"? «Mi tengo la mia "22". Voglio essere ricordato come Lavezzi, non come uno che ha ereditato la maglietta di Diego». È meglio essere il numero uno a Napoli o il due o il tre a Milano? «È un’esperienza, la seconda che ha detto, che non ho mai fatto. A Napoli sto bene e sono contento dell’affetto della gente. Se un giorno dovessi andare da un’altra parte, le potrò dire se qui era meglio o peggio». Ma si sente un po’ napoletano? «No. Non mi sento napoletano. Se dicessi il contrario, sapendo che non è vero, mancherei di rispetto ai napoletani. Io sono argentino, orgoglioso di esserlo. Ma lo sono anche di giocare nel Napoli».