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 2012  marzo 21 Mercoledì calendario

ARTICOLO 18, FINE DI UN TABU’ ITALIANO

Ieri il governo ha fatto una scelta di metodo saggia sulla riforma del mercato del lavoro. Confronto a oltranza sì, fino a giovedì. Potere di veto ad alcuno, no. Se la Cgil non convergerà per la nuova disciplina dell’articolo 18, il governo procede comunque. È giusto così, dopo tanti anni di immobilità. E visto che sul mercato del lavoro italiano continuano a vivere totem derivanti da un passato che non passa, molto ideologico. Da questo punto di vista, il superamento del tabù dell’articolo 18 è epocale. Dopo la riforma delle pensioni che è stato grande merito del governo Monti varare di corsa, è proprio la riforma del mercato del lavoro quella più utile a sbloccare. Nell’indice di competitività globale elaborato dal World Economic Forum, nel 2011 l’Italia è al 43° posto su 142 Paesi, stabile o in discesa da anni. Ma nel mercato del lavoro siamo 123esimi su 142. Solo per crimine organizzato e costo e trasparenza della regolazione pubblica, siamo più in giù. Siamo al 134° posto per flessibilità dei salari, al 126° per le politiche di assunzione e licenziamento, al 125° sia per reddito da lavoro rispetto al peso preponderante del cuneo fiscale, sia per proporzione tra salario di produttività e quello complessivo.
Purtroppo, l’approccio riformatore del governo ha un difetto. Il grande moltiplicatore della partecipazione al mercato del lavoro - 12 punti complessivi più basso che in Germania, 18 per i giovani, 22 per le donne - è e non può che essere l’abbattimento del cuneo fiscale, che ci dà più bassi salari al più alto costo complessivo. Ma il governo su questo dice che non si può: non si riesce a tagliare la spesa pubblica.
Purtroppo, non c’è grande riforma del lavoro che abbia avuto successo, da quella tedesca a quella svedese, che non sia partita da questo primo passo. Da noi, non c’è. Il punto critico è stata invece la bassa correlazione tra minore flessibilità all’entrata e maggiore in uscita. È il modo per rendere più ragionevole il risultato finale al quale occorre mirare, che non è ideologico ma deve tradursi in più occupati. Se si sposa la linea della minor flessibilità all’ingresso, è più difficile superare l’ostacolo di quell’enorme feticcio polemico che è l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Ieri il ministro Fornero ha dovuto ammetterlo, che le critiche su questo sono fondate.
Il ministro ha inizialmente sostenuto una forte stretta alle diverse forme di ingresso nel mercato del lavoro diverse dall’assunzione a tempo indeterminato, in nome della prevalenza di quest’ultimo per contrastare il precariato. Ma in tempi di forte rallentamento produttivo la proposta di alzare ancora una volta i contributi su contratti atipici e introdurre nuovi appesantimenti autorizzativi e di controllo, le comunicazioni a ogni cambio di orario e la dilazione della corresponsione del grande abbattimento di costo già disposto da Sacconi per l’apprendistato solo ad assunzione avvenuta a tempo indeterminato, inevitabilmente ha portato alla protesta delle imprese. Non per spirito corporativo. Ma perché tra calo di ordinativi e stretta del credito la linea degli aggravamenti procedurali e di costo accresce inevitabilmente le difficoltà. Il governo ha dovuto fare marcia indietro su alcune rigidità di troppo e sull’aggravio dei contributi aggiuntivi, in specie per ReteImpreseItalia. Se sarà così nel testo finale, è un bene.
È stata invece ottima l’idea del ministro Fornero di distinguere finalmente tempi più rapidi di ristrutturazione delle imprese, rispetto all’Aspi (Assicurazione sociale per l’impiego) cioè al sostegno al reddito di chi perde il lavoro e non va più tenuto per tre anni incatenato a impieghi e stabilimenti che non sono più economici. Nessuno ha però capito per settimane al di là dell’aumento contributivo proposto da dove venisse la copertura aggiuntiva della misura, dopo i primi dissensi tra Lavoro e Tesoro. Per questo, imprese e sindacati hanno ottenuto che fino al 2017 i nuovi ammortizzatori non decollino e resti l’attuale sistema. Un orizzonte troppo lungo, che si deve anch’esso al fatto che non riusciamo a tagliare spesa pubblica e a riallocare risorse laddove esse sono davvero necessarie. Anche perché senza una rivoluzione vera nell’incrocio tra chi il lavoro non l’ha più e le imprese che ne hanno bisogno, resteremo con agenzie pubbliche che intermediano il 3 o il 4% dei rioccupati, quando va bene. E con un grosso rischio per i disoccupati ultraquarantenni e ultracinquantenni, visto che il sussidio nuovo, l’Aspi, durerà un anno e senza prepensionamenti.
Tuttavia, a prevalere nelle tensioni e polemiche non sono stati questi aspetti, ma la riforma della disciplina dei licenziamenti. Bisogna dirlo: è una svolta storica, il reintegro giudiziale previsto solo per i licenziamenti discriminatori. Mentre per quelli disciplinari deciderà il giudice tra reintegro o indennizzo, e per quelli economici si corrisponde invece solo l’indennizzo, da 15 a 27 mensilità. Facendo saltare una volta per tutte la quota dei 15 dipendenti, che tanto male ha fatto alla crescita delle imprese. Un liberista come chi scrive vorrebbe molto di più, a cominciare dal cuneo fiscale abbattuto. Ma non si può che plaudire al ministro Fornero per norme come quella sulla conciliazione del tempo-lavoro con il tempo-famiglia, e contro le lettere di dimissioni in bianco, odiose e frequenti soprattutto per le donne, come abbiamo recentemente avuto conferma con le 500 lavoratrici ricattatoriamente licenziate di comodo solo a Napoli nel 2011. Un mercato del lavoro senza queste vergogne, sarà un guadagno per tutti. Più donne lavorano, più figli in famiglia: come testimonia la realtà di tutti i Paesi più avanti rispetto a noi.