Paolo Russo, La Stampa 14-21/3/2012, 21 marzo 2012
Oggisicelebralagiornata mondialesullasindrome diDown.Perl’occasione sustampaeTvgliattori deglispotpubblicitarisaranno sostituitidapersoneaffette dallasindrome
Oggisicelebralagiornata mondialesullasindrome diDown.Perl’occasione sustampaeTvgliattori deglispotpubblicitarisaranno sostituitidapersoneaffette dallasindrome.Unmodoper direcheseopportunamente integratepossonocontribuire allosviluppodelPaese.Ma quantisonoiDowninItalia? Oggi più di 38mila e le stime più recenti dicono che aumenta il numero di bambini che nascono affetti dalla sindrome. Questo soprattutto perché si partorisce in età sempre più avanzata. Certo, gli screening prenatali consentono oramai di sapere quasi con certezza se un bimbo sarà Down, ma sempre più donne decidono di portare comunque avanti la gravidanza anche dopo la scoperta. Stime regionali dicono che ormai la media dei nuovi nati down è molto simile a quella degli anni ’70 quando non avvenivano controlli. Qualèlacausadellasindrome diDownec’èunfattore ereditario? La scelta della data 21 marzo non è casuale: la sindrome di Down, detta anche Trisomia 21, è caratterizzata dalla presenza di un cromosoma in più – tre invece di due – nella coppia cromosomica n. 21 all’interno delle cellule. Solo in casi rari la sindrome può essere trasmessa da genitori non Down e senza figli affetti dalla stessa sindrome: in Italia si registra un caso ogni 80mila nuovinaticirca.Perigenitorichahanno un figlio Down la possibilità di avere un altro bambino con la stessa sindrome è meno rara: una possibilità su cento. Ma se uno di questi genitori ha quel “cromosoma 21” in più (circa un casosu80)ilrischioèinvecealtissimo. Per questo è importante che i genitori con un figlio Down si sottopongano ad accurati test genetici. Qualèlasperanzadivita? Oggi sicuramente molto più alta che in passato. Se nel ’75 l’età media era di 21-22 anni, ora le persone Down vivono in media 50 anni e loro aspettativa di vita è di 61 anni. Il problema è che con l’età crescono anche le malattie perché i 50 anni di un Down equivalgono ai 70 di un normodotato. In più c’è il rischio della demenza. Che si previene soprattutto favorendo l’integrazione. Chepassiavantistafacendo laricerca? Alberto Costa, medico italo-brasiliano con una cattedra di neurologia all’Università di Denver e una figlia Down, ha avviato un promettente studio sulla Memantina, una sostanza, già approvata dalle autorità farmaceutiche statunitensi, che avrebbe la facoltà di migliorare memoria e capacità cognitive. «Un farmaco - sostiene il professore - che non vuole cambiare le persone Down, che sono splendide, ma renderle più autonome». Comeavvienel’integrazione scolastica? Meglio che in passato, quando gli allievi Down e disabili in genere ancora a fine anni ’70 venivano portati fuori dalla classe per essere seguiti individualmente dall’insegnante di sostegno. La motivazione era quella di adattarsi meglio ai ritmi di apprendimento dell’allievo Down, ma così facendo si finiva per ghettizzare i ragazzi nelle scuole speciali e nelle classi differenziate. Oggi si punta invece sempre più all’interazione con i coetanei e alla responsabilizzazione degli insegnanti di ruolo, pur con il supporto di quelli di sostegno. Ma tutti nella stessa aula. In alcuni casi tuttavia si tende a formare delle sotto- classi composte anche da alunni senza difficoltà di apprendimento, questo per consentire un insegnamento più individualizzato. Ma per gli esperti quando la prassi non è comune a tutta la classe c’è il rischio di tornare alle classi differenziali. Achepuntosiamo conl’integrazionelavorativa? Nei primi anni ’70 l’Italia era all’avanguardia nell’orientamento e nella qualificazione professionale dei ragazzi Down grazie a progetti di formazione condivisi da genitori e datori di lavoro, all’inserimento di insegnanti-operatori nelle aziende, agli incentivi pubblici alla persona e all’impresa. A distanza di 40 anni – denunciano le associazioni delle persone Down - la situazione è però fortemente differenziata con una sostanzialeassenzadiiniziativealSud. Gliultimitagliall’assistenza eagliEntilocalihannoinciso negativamente? «Sicuramente sì» dichiara Sergio Silvestre, coordinatore nazionale di CoorDown. «Nonostante il Ministero abbia previsto 6 mila insegnanti di sostegno in più, si tratta ancora di forze insufficienti, anche perché il più delle volte il sostegno è offerto alla classe e non alla persona». Riguardo la formazione post-scolastica per l’inserimento nel lavoro «questa nella metà dei casi, soprattutto a sud, è a carico delle associazioni», denuncia Silvestre. Così secondo CoorDown la media nazionale degli inserimenti lavorativi delle persone Down collocabili è solo del 13%. Ma al Nord la media è molto più alta. A Pordenone addirittura del 90%, «a dimostrazione - continua Silvestre che le politiche di integrazione pagano, come dimostrano anche i tre Down neo-laureati».