Claudio Colombo, Corriere della Sera 21/3/2012, 21 marzo 2012
Ora fanno così: ballano, tirano frecce, sparano imbracciando finti kalashnikov, cullano fantasmi di bimbi, stappano immaginarie bottiglie, mimano improbabili match pugilistici
Ora fanno così: ballano, tirano frecce, sparano imbracciando finti kalashnikov, cullano fantasmi di bimbi, stappano immaginarie bottiglie, mimano improbabili match pugilistici. E ancora: lanciano bacetti in tribuna, costruiscono cuoricini con le mani, si mettono a trenino, qualcuno a cagnolino. Non contenti, si buttano a terra, creano mucchi selvaggi, danno sberle sulla testa, si strizzano (è successo) i gioielli, tanto al massimo, mezz’ora dopo, sei su diciottomila siti internet e fai persino la figura dello spiritoso. Lunga e devastante, per chi la deve vedere, è la strada del festeggiamento dopo un gol nel calcio, galleria degli orrori che sta sempre più banalizzando la rappresentazione scenica della gioia sportiva. Questo è il motivo per cui, con un piccolo moto di commozione, oggi qui si celebra, a 35 anni dall’«invenzione», il gesto dell’entusiasmo sobrio ma non frigido del «dammi cinque», «high five» in inglese, nato nel 1977 il 2 di ottobre a Los Angeles, durante una partita di baseball tra i Dodgers e gli Astros di Houston. Si celebra qui e oggi perché tra poco, nel terzo giovedì di aprile (che quest’anno cade il 19), in America sarà festeggiato l’«High Five National Day», la sagra del «dammi cinque» declinato in tutti i modi. Se cliccate «high five» su Google, vi imbatterete in una straordinaria galleria di foto e su una ridondante messe di informazioni. Compresa, naturalmente, una querelle sulla genesi del gesto. L’invenzione ha infatti padri diversi, come quasi sempre accade per le cose riuscite, ma la cronaca registra quel 2 ottobre come il giorno buono e più credibile. Accade questo: durante l’ultima partita della stagione regolare, Dusty Baker mette a segno il suo 30° fuoricampo dell’anno, che porta dritto la squadra alle finali. Momento d’estasi al Dodger stadium. Un compagno di Baker, Glenn Burke, si avvicina festoso con il braccio destro alzato e la mano aperta. Baker, che oggi ha 62 anni e allena i Cincinnati Reds, ha raccontato quel momento così: «Vedo Glenn sorridente col braccio su, viene verso di me e non so che cosa diavolo abbia in testa. Ma è un attimo, l’istinto o cosa, non so: anche a me viene di alzare il braccio e shciak, le due mani si incontrano e fanno la storia. Ecco che cosa è successo, ecco come nato l’high five». Dusty Baker è la voce narrante di un episodio sul quale Glenn Burke non può aggiungere nulla: è morto infatti nel 1995 ad appena 43 anni, stroncato dall’Aids. Una storia nella storia, la sua. Burke, nato a Oakland, California, era una stella dei Dodgers: nel 1978, primo giocatore di baseball della storia, fece «coming out» dichiarando la propria diversità. La sua carriera si restrinse quasi per incanto: già nel 1979 era un ex. Burke andò avanti da sportivo dilettante e militante, partecipando ai Giochi Gay dell’82 dove vinse l’oro nei 100 e 200 metri. Ma quel tipo di ribalta non era la stessa cosa e, soprattutto, lui non era più lo stesso uomo: nel giro di pochi anni l’ex stella dei Dodgers dilapidò quanto aveva guadagnato in alcol e droga, finì barbone sulle strade di San Francisco, e l’Aids se lo portò via il 30 maggio 1995. Ma se ora in ogni campo, sportivo e non, gioia e soddisfazione si esprimono con un «dammi cinque», il papà di tutti i gesti sportivi, questo lo si deve a Glenn Burke. Si merita un five alto, ovunque egli sia. Claudio Colombo